domenica 2 dicembre 2012

L'ultima ingiuria ai nostri patrioti da parte di Alessandro Barbero


Dukla, piccolo comune del distretto di Krosno nel Voivodato in Polonia. Ai più non dice nulla. In questo piccolo comune rurale, il 4 ottobre del 1898 nacque tale Jan Liwacz. Anche questo, ai soliti più, dice poco o nulla. Allora, vediamo di essere più precisi. Arbeit macht frei , cioè "Il lavoro rende liberi”. Questo dovrebbe dire molto di più. Infatti, la scritta "Arbeit macht frei" che sovrasta la cancellata d'ingresso del Campo di concentramento di Auschwitz, fu realizzata dall'internato Jan Liwacz, un fabbro detenuto nel campo di concentramento di Auschwitz. Jan fu arrestato il 16 ottobre 1939 a Bukowsko e rinchiuso ad Auschwitz il 20 giugno 1940, col numero di campo 1010. Se, anziché nascere a Dukla fosse nato a Napoli o nel relativo Regno, avrebbe scritto: “Laßt alle Hoffnung, die ihr eingeht”, cioè “Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate”. Ma non ad Auschwitz, bensì a Fenestrelle, un comune italiano in provincia di Torino. A Fenestrelle o Fenestrele in piemontese, ma anche Finistrelas in lingua occitana, a circa 2000 metri d’altezza esiste una fortezza, al cui ingresso è scritto:

 "OGNUNO VALE NON IN QUANTO E' MA IN QUANTO PRODUCE".


“Uno dei più straordinari edifizi che possa aver mai immaginato un pittore di paesaggi fantastici: una sorta di gradinata titanica, come una cascata enorme di muraglie a scaglioni, un ammasso gigantesco e triste di costruzioni, che offriva non so che aspetto misto di sacro e di barbarico, come una necropoli guerresca o una rocca mostruosa, innalzata per arrestare un'invasione di popoli, o per contener col terrore milioni di ribelli. Una cosa strana, grande, bella davvero. Era la fortezza di Fenestrelle”.

Così scriveva il De Amicis, ed ancora,

“Sempre par di sentire ruggire di sotto le batterie, o di veder tra le casematte rimbalzar le granate degli assedianti sollevando tempeste di schegge, e soldati boccheggiar per le scale, e giù nella valle, e poi fianchi del monte, saltar in aria cassoni d'artiglieria, e masse di truppa sbaragliarsi urlando per i boschi, sparsi d'affusti stritolati e di membra umane» «Guardiano immobile e supremo della nostra indipendenza e del nostro onore”.

Onore, onore, onore, questa parola riecheggia nella nostra mente, nei nostri ricordi, nei ricordi dei figli del sud, dei figli del Regno delle Due Sicilie.
Noi, invece, vi proponiamo documenti reli allo scopo di dimostrare quali erano le effettive condizioni degli oltre 40.000 tra ufficiali, soldati e civili, di età compresa tra i 22 ed i 32 anni che non vollero giurare fedeltà ad un altro re.

Francesco Proto Carafa, duca di Maddaloni (deputato alla camera dal 1861) scrive

Ma che dico di un governo che strappa dal seno delle famiglie tanti vecchi generali, tanti onorati ufficiali solo per il sospetto che nutrissero amore per il loro Re sventurato, e rilegagli a vivere nelle fortezze di Alessandria ed in altre inospitali terre del Piemonte…Sono essi trattati peggio che i galeotti. Perché il governo piemontese abbia a spiegar loro tanto lusso di crudeltà? Perché abbia a torturare con la fame e con l'inerzia e la prigione uomini nati in Italia come noi?

Generale La Marmora:

"… i prigionieri napoletani dimostrano un pessimo spirito. Su 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsentono a prendere servizio. Sono tutti coperti di rogna e di verminia…e quel che è più dimostrano avversione a prendere da noi servizio. Jeri a taluni che con arroganza pretendevano aver il diritto di andare a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a Francesco Secondo, gli rinfacciai altamente che per il loro Re erano scappati, e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavano a servire, che erano un branco di car…che avessimo trovato modo di metterli alla ragione".

Rivista Civiltà Cattolica:

"Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad un espediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane ed acqua ed una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e d'altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimare di fame e di stento per le ghiacciaie".
Revanscismo? Rigurgiti di nazionalismo? Niente di tutto questo, semplicemente l’affermazione di una verità scomoda che è, continuamente, stravolta da prezzolati tendenti a perpetrare un eccidio fisico e morale iniziato e mai finito. Ogni popolo, ogni uomo, ha diritto alla sua dignità e non può vedersela scippare ad ogni piè spinto. Milioni di napoletani, trucidati dai “liberatori” piemontesi, vagano nel limbo di un’invocata verità. Restituiamo a questi uomini il loro onore e la loro lealtà a quel giuramento fatto in forma solenne e che ha impegnato le loro coscienze.

martedì 27 novembre 2012

Utopia o ultima spiaggia?



I social Network, i blog, i forum, insomma la rete tutta, sono strumenti che ci consentono d'interagire tra di noi. Si può parlare di tutto e di tutti. Si scrivono o si riportano frasi, aforismi e poesie, si postano foto e pensieri. Senza nulla togliere all’autonomia di ogni internauta, vorrei esprimere una mia personalissima opinione. Il popolo italiano, senza distinzione territoriale e di appartenenza politica, è sottoposto in questi anni ad una macelleria sociale senza precedenti. Imposte, tasse, crisi economica, disoccupazione, mancanza di prospettive per i giovani, grama vecchiaia per gli anziani, welfare latitante, strangolano in un abbraccio mortale l’Italia che lavora e quella che non ha lavoro. La nostra nazione viaggia a 2 velocità. Quella alta e spregiudicata, senza remore, umiltà e vergogna e che siede alla ricca tavola del potere e delle aule consiliari (Camere, regione, Province e Comuni). Gente che governa per il consenso e gente che cerca il consenso per governare. Ricchi e superpagati, depositari di verità ai più sconosciuti. Gente che fa incetta di privilegi, prebende, poltrone e che inanella una serie infinita d’incarichi super pagati. Corrotti e collusi. Dall’altra parte ci sono milioni di persone indigenti e pensionati che non superano i 500 € mensili, dipendenti oberati da tasse e balzelli, giovani senza futuro, intere comunità sotto il controllo dell’illegalità e mi fermo qui per non essere monotono e stancante. I nostri governanti hanno gioco facile su di noi. Tutto il male che combinano è accettato da noi con una rassegnazione che rasenta l’incoscienza. Con masochismo disarmante li teniamo sul nostro libro paga e consentiamo loro ogni abuso e prepotenza. A questo punto non saprei più distinguere tra colpevoli ed innocenti, tra vittime e carnefici. La rete, ritorniamo a bomba. Questo miracolo tecnologico ci consente di interagire anche a grandi distanze. Ma, se io dico la mia, tu la tua e loro la loro, allora saremo gocce di rugiada sparse al vento. Se abbiamo una sola voce, una sola volontà allora saremo mare in tempesta. Assistiamo a scene surreali per un paese in crisi come il nostro. Mentre i tecnici al governo hanno la loro bocca concentrata sul fiero pasto, i politici litigano e dissertano sulle primarie e sul come organizzarle e vincere, oltre che guadagnarci 4€ per ogni incosciente che si presta alla pochade. Allora? Allora orientamento e sana indignazione. Focalizziamo la nostra attenzione su pochi e qualificanti punti: WELFARE e PRIVILEGI. In rete parliamo solo di questo: WELFARE e PRIVILEGI.
·         Tetti pensionistici con limiti e senza cumulabilità da 1.000 a 5.000 €
·         Sanità gratuita per tutti i redditi familiari inferiori a 2.000 €
·         Abolizione IMU prima casa e case locate (solo privati)
·         Estensione IMU a Partiti politici, Chiesa e Banche
·         Abolizione di ogni privilegio di tutti i politici (camere, regioni, province, comuni ed Enti locali) a qualsiasi titolo
·         Abolizione, sic et simpliciter, di tutte le Province per decreto
Utopia di un’indignazione o ultima spiaggia? 

giovedì 15 novembre 2012

I CIMITERI NAPOLETANI


I cimiteri di Napoli: le 366 fosse


Prima del 1762, a Napoli,  le salme dei defunti venivano sepolte in grandi fosse fuori dalle mura di cinta della città, mentre reali e nobili trovavano la loro ultima dimora nelle chiese delle città. Dalla seconda metà del XVII secolo, quando a Napoli imperversava la peste, i morti trovavano riposo nell’ospedale degli Incurabili di Napoli, fortemente voluto da Maria Lorenza Longo. I corpi di quegli sventurati venivano gettati in una fossa sotto il complesso ospedaliero detta <<Piscina>>. Questo, però, rendeva l’aria di quel sito alquanto malsana, per cui si cercò una soluzione al problema. La Real Santa Casa degli Incurabili pensò di costruire un cimitero ad uso della stessa. Si raccolsero circa 14370 ducati, di cui 4500 donati da Ferdinando IV, 9300 dai Banchi pubblici e 570 da altri donatori, purtroppo non bastavano e l’ospedale vi aggiunse la differenza di 26130 ducati. Nel 1762 l’architetto Ferdinando Fuga, su commissione di Ferdinando IV, costruì quello che potrebbe definirsi il primo cimitero napoletano,

<<AFFINCHE’ LA CITTA’ IMMENSA E MOLTO POPOLOSA NON FOSSE DANNEGGIATA DALL’AMMASSO DI CADAVERI CHE CONTIENE E QUINDI DALL’ASPIRAZIONE TOSSICA>>.

L’edificio è posto alla fine di due ripide rampe e vi si accede tramite una grande porta ad arco. Ai lati della porta vi sono due epigrafi del Mazzocchi; a destra dell’uscio vi è scritto il motivo per cui è stato costruito ed anche le misure dello spazio occupato, che sono di <<PEDES CCXXXVIII. IN AGRUM PEDES CCLIX>>, cioè: 238 e 259 piedi (70,45 e 76,66 metri) e la data del 21 settembre del 1762; a sinistra i nomi di coloro che ordinarono la costruzione, dell’architetto ed un invito alla pietà ed alla preghiera:

<<DIC BONA VERBA ET ANIMIS PIE IN DOMO SANCAT VITA FUNCTORUM PRO TUA PIETATE BONA ET SANCTA PRECARE.>> 

Originariamente l’ingresso era un portico ad archi con a destra una cappella decorata con un dipinto ad olio di Antonio Pellegrino ed a sinistra l’Officina. Il chiostro interno e di trecentodieci palmi (80,6 metri) per lato e nel quadrato si trovano 360 fosse di questo cimitero che sono profonde 7 metri, larghe 4,20 e coperte da grandi lastre di pietra vesuviana di circa 80 cm. per lato. Le restanti 6 fosse erano all’interno del vestibolo. Attualmente le fosse sono 365, in quanto una è stata fagocitata dall’ampliamento della cappella posta alla destra dell’entrata, nella quale si trovano 3 ossari. Quindi, una per ogni giorno dell’anno più una per gli anni bisestili (corrispondente alla n. 60 e che andava usata solo in tali anni). La struttura è statica ed interrata ed è composta da 19 gallerie, parallele al corpo di fabbrica dell’ingresso, con una volta a botte a tutto sesto. Il primo gennaio di ogni anno era scoperta una fossa, nella quale erano depositati i morti di quel giorno, la sera la si chiudeva ed il giorno dopo si apriva la seguente. La disposizione delle fosse è di 19 file per 19 fosse ognuna, escluso la decima fila che ne contiene 18, poiché non esiste quella centrale (punto d’intersezione degli assi di simmetria), al posto della quale è collocato un lampione a gas ed il tombino dello smaltimento delle acque piovane. La numerazione va da sinistra a destra dal numero 1 al 19, nella seconda fila si va dal 20 al 38, ma da destra a sinistra e si procede così fino alla fossa numero 360. All’inizio del nuovo anno si ripartiva dalla fossa numero uno e si ripetevano le operazioni di cui sopra.

Nel 1871 vi fu un ampliamento di questo cimitero che mortificò la matematica concezione del Fuga. Accadde che, su proposta dell’arciconfraternita di Santa Maria del popolo, furono soppresse le sepolture nelle fosse da 361 a 366 (dal 26 al 31 dicembre) per cui non si rispettò più la cronologia. Le salme, fino al 1875, erano gettate dall’alto del piazzale e, questo, costituiva l’ultima ed ennesima offesa alla vita del povero defunto. Nel 1875, però,  una nobildonna che aveva perso la figliola, non volendo che questa subisse l’umiliazione di essere gettata a mo’ di rifiuto, fece costruire e donò, una macchina funebre capace di calare all’alto le salme.    Tale macchinario era composto da un argano con una cassa di ferro col fondo apribile, in modo che il corpo fosse calato sul fondo e rilasciato tramite una molla che apriva il fondo della cassa. Quest’argano è ancora visibile all’interno del chiostro, sia pure molto danneggiato e corroso dal tempo. Il cimitero del Tredici, comunemente detto delle 366 fosse, restò in servizio fino al 1890, raccogliendo oltre due milioni e mezzo di corpi. Attualmente non riceve più defunti e riversa in uno stato fatiscente e bisognoso di restauro. Ultima cosa, i guardiani di questo cimitero, dal 1762 ad oggi, appartengono alla stessa famiglia. Il nome di questo cimitero si trasformò in TREDICI. Il nome <<Tredici>> si deve ad una stortura della pronuncia di Lautrec. Odet de Foix, conte de Lautrec e de Comminges, maresciallo di Francia (1511), conte di Foix, di Rethel e di Beaufort, signore d'Orval, di Chaource, di Marais, Isles e Villemur (1485 - 15 agosto 1528). Figlio di Jean de Foix, visconte di Lautrec e Villemur, governatore del Delfinato, e di Jeanne d'Aydie de Lescun; cavaliere di Saint Michel, fu  governatore della Guienna. Il Lautrec fu un prode guerriero, ma più che altro è ricordato per la sua inflessibilità e crudeltà, come un sanguinario. La strada della sua carriera fu spianata dalla sorella Françoise, la contessa di Châteaubriant, favorita di Francesco I di Francia. Finì che andò per suonare ma fu suonato, ecco come. Nell’estate del 1558, inviato da Francesco I contro Carlo V, Lautrec giunse a Napoli ed in breve tempo la cinse d’assedio. Il condottiero non si aspettava, dalla città, una resistenza indomita, per cui gli assalti risultavano vani. Fu quello il momento in cui, il francese, ebbe l’idea fulminante. Affamerò la città, pensò, anzi meglio, l’asseterò. Così fece distruggere dai suoi le condutture dell’acquedotto detto <<Della bolla>> che alimentava la città. Abbiamo però detto che si era in estate, per questo motivo, il caldo ed il terreno paludoso, in uno con le acque che dalle condutture si riversavano nei terreni circostanti, diedero vita ad una dilagante pestilenza, che in breve tempo uccise le truppe francesi ed il loro comandante Lautrec. Le spoglie mortali dell’esercito e del francese furono ricoverate in una grotta di quel luogo detta grotta dello sportiglione. In ricordo di questo fatto, i napoletani, nomarono quel luogo Lotrecco o lotrevice che poi nel tempo cambiò in tredici. 

mercoledì 14 novembre 2012

Unità d'’Italia: mistificazione di un'invasione



Dopo la disfatta di Gaeta, conclusasi il 14 febbraio 1861 alle otto di mattina, cominciarono gli arresti e le deportazioni dei soldati borbonici e dei civili fedeli a Francesco II di Borbone, esiliato prima a Roma, poi a Parigi ed infine ad Arco, in Trentino, dove morì il 27 dicembre del 1894. Migliaia di uomini furono messi ai ferri e stipati in navi verso Genova. Molti di loro percorsero il tragitto a piedi fino alla città ligure, dove furono smistati nei vari campi di concentramento. Oltre al forte di Fenestrelle se ne allestirono ad Alessandria, nel forte di S. Benigno a Genova, Milano, Bergamo, S. Maurizio Canavese, a Savona nel forte di Priamar, a Parma, Modena e Bologna. Il generale Enrico Cialdini, modenese di nascita, fu nominato coordinatore della custodia dei deportati meridionali, e ne fu l’esecutore materiale su mandato del governo piemontese. Il vero martirio lo subirono gli oltre 40.000 deportati a Fenestrelle. Il regno sabaudo dopo l’unione d’Italia, nell’VIII legislatura, guidata dal bolognese Marco Minghetti, in data 15 agosto  1863 promulgò la legge nº 1409, “Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette, VIII legislatura, Regno d'Italia”, meglio conosciuta come Legge Pica, dal nome del suo estensore, l’aquilano Giuseppe Pica. Questa legge si articola su cinque articoli fondamentali, che di seguito sono enunciati.
1° Fino al 31 dicembre nelle provincie infestate dal brigantaggio, e che tali saranno dichiarate con decreto reale, i componenti comitiva, o banda armata composta almeno di tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche strade o le campagne per commettere crimini o delitti, ed i loro complici, saranno giudicati dai tribunali militari;
2° I colpevoli del reato di brigantaggio, i quali armata mano oppongono resistenza alla forza pubblica, saranno puniti con la fucilazione;
3° Sarà accordata a coloro che si sono già costituiti, o si costituiranno volontariamente nel termine di un mese dalla pubblicazione della presente legge, la diminuzione da uno a tre gradi di pena;
4° Il Governo avrà inoltre facoltà di assegnare, per un tempo non maggiore di un anno, un domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi, alle persone sospette, secondo la designazione del Codice penale, e ai manutengoli e camorristi;
5° In aumento dell'articolo 95 del bilancio approvato nel 1863 è aperto al Ministero dell'interno il credito di un milione di lire per sopperire alle spese di repressione del brigantaggio.
A questo punto resta da stabilire chi era connotato come brigante dal governo centrale neo costituito dell’epoca. Il cavillo della questione si può individuare al 4° articolo della legge, dove anche chi si macchiava del “delitto” di vagabondaggio (il vagabondaggio era consuetudine, vista la situazione in cui era stato ridotto il meridione dopo l’unione d’Italia) o addirittura chi era ozioso (sempre per la stessa ragione, molti erano costretti a oziare per la mancanza di occupazione) veniva inviato al domicilio coatto.
Panorama della fortezza di Fenestrelle.
Mette conto, a questo punto, dare vita ad una piccola digressione per soffermarci sul Forte di Fenestrelle. La fortezza di Fenestrelle è la più grande struttura fortificata d’Europa, tanto enorme da essere chiamata “la grande muraglia piemontese”.  Un’opera faraonica, voluta da Vittorio Amedeo II per difendere il Piemonte dagli attacchi dei francesi, la costruzione del forte ebbe inizio nel 1728 e fu terminata nel 1850, dopo oltre 122.  La sua estensione va dalla sommità della montagna per concludersi, in pratica, a fondo valle, nel 1850. Posta a più di 2.000 metri d’altezza e composta da tre forti:  San Carlo, Tre Denti e delle Valli. Queste costruzioni  sono unite da 2 scale. La prima, composta da 4.000 gradini, è interamente coperta e scavata in galleria artificiale. La seconda, detta “scala reale” è interamente all’aperto ed è composta da 2.550 gradini e lunga 2 chilometri, voluta da Carlo Emanuele III. La Scala Reale sale per circa 3 chilometri lungo il fianco della montagna in val Chisone, con un dislivello di 635 metri e copre un’area di 1.300.000 metri quadri. Insistono a Fenestrelle vasche per la calce viva, una di queste è posta alle spalle della chiesa del forte, seminascosta e fuori dai percorsi che generalmente si fanno compiere ai turisti in visita. Vasche testimoni di inaudite sofferenze patite dai soldati borbonici. Questi uomini, figli di una terra teatro d’incontro di culture normanne, sveve, angioine ed aragonesi, andavano al massacro, a guisa di masochistici schiavi, in terre straniere dove venivano disprezzati ed evitati come le peggiori bestie, come reietti indegni di esistere. Questo marchio indelebile è ancora tatuato sulla nostra pelle, così come avvenne un secolo dopo con la martoriata popolazione ebraica. Arbeit macht frei ( il lavoro rende liberi), questo era l’ironico messaggio che accoglieva  i deportati nei campi di concentramento nazisti durante la seconda guerra mondiale, mentre i fascisti scrissero a Fenestrelle: “Ognuno vale non in quanto è ma in quanto produce”. In questi luoghi, ostici quanto mai per le genti meridionali a causa del freddo e di com’erano tenuti in prigionia dall’esercito piemontese, gli uomini erano trattati come bestie e privanti  anche degli stracci che indossavano per fare in modo che soffrissero ancora di più il clima rigido invernale. Non andava meglio nelle sere d’estate, quando l’aria risultava pungente per l’altitudine e penetrava in celle di detenzione private delle finestre. Ai prigionieri, privati del cibo e della pur minima assistenza medica, fu riservato un triste e tragico destino: morirono in circa 40.000. Generalmente, in quelle condizioni disumane, non riuscivano a sopravvivere più di tre mesi e quello che non poté la privazione lo fecero le famigerate vasche di calce viva, dove furono sciolti i morti e i corpi ancora vivi dei sopravvissuti. La carneficina non durò un breve lasso di tempo, ma si protrasse per anni; dall’archivio storico del ministero degli esteri sono stati ritrovati carteggi di una richiesta del 1869, da parte del governo italiano per l’acquisto di un’isola argentina per relegarvi i soldati napoletani, all’epoca ancora detenuti, il che, lascia intendere, il loro numero fosse ancora rilevante. Fine digressione.
Piantina della fortezza di Fenestrelle in Val Chisone. TO
Intanto, all’indomani della unificazione coatta, oltre 72.000 meridionali iscritti nelle liste di leva del regno borbonico e in seguito nel neonato regno d’Italia, vennero chiamati a prestare il sevizio militare. Fu un vero fallimento, su 72.000, solo 20.000 risposero alla chiamata alle armi gli altri si diedero alla macchia, per cui furono dichiarati “briganti” e perseguiti a norma della legge del regno sabaudo e in seguito anche per la legge del regno d’Italia, solo perché fedeli al Re borbonico ed a cui avevano prestato giuramento. Alla luce di quanto su esposto viene naturale chiedersi: era proprio necessario questo massacro di inaudite proporzioni? L’esercito borbonico era ormai disciolto ed inesistente. Il Re Francesco II era in esilio e senza alcuna speranza di ritorno. Quei pochi briganti sopravvissuti allo stermino erano in prigione. Le popolazioni rurali avevano visto esaurito ogni loro sentimento di restaurazione. Le forze economiche del meridione erano solo un ricordo dei tempi passati. Tutto era compiuto, perché infierire? Genocidio premeditato? O semplicemente barbarie? In questi giorni, infuria la polemica su quanto siano veritieri questi fatti storici, supportati da prove tangibili e di ricostruzioni storiche certosine e laboriose a causa dell’occultamento di molte prove, come atti ufficiali e libri risalenti ai fatti scritti in epoche pre-repubblicani. Quanto più fatti e voci si levano per affermare una verità dolosamente occultata, tanto più viene messa in dubbio e tacciata sotto la definizione di: invenzione storiografica e mediatica, relegata in un angolo buio dal nuovo revisionismo storico, sempre più aggressivo. Si può dire, senza timore di smentita, che il governo sabaudo fu precursore del delitto contro l’umanità che fu la deportazione, la detenzione e l’eccidio di tante persone innocenti e della sua copertura alle generazioni future, avvenuto all’alba della nascita dell’Italia. Nessuna nascita di un paese civile dovrebbe poggiare la base sul sangue innocente scorso a fiumi e su l’occultamento scientifico di un periodo storico inumano, facendo in modo che questi non lasci traccia e senza che se ne faccia menzione su alcun testo storico.
Targa commemorativa dei deportati caduti,posta nella piazza d'arme del forte.


venerdì 2 novembre 2012

Scuola pittorica di Posillipo


"Castel dell'Ovo dalla spiaggia" Anton Sminck van Pitloo.
"isola del liri" Raffaele Carelli.
"Sorrento" Giacinto Gigante.
Gabriele Smargiassi.
Nel 1820 nasceva a Napoli la scuola pittorica di Posillipo che, ancora oggi, identifica una corrente pittorica ricca di esponenti e con una collocazione precisa nell'arte mondiale. La storia identifica un genere inconfondibile, per disegno e colorazione, con il filone pittorico detto: "Scuola di Posillipo". L'archetipo dell'appellativo non nasce dalla scuola bensì da esponenti di questo genere di pittura come Antonio Pitloo, Giacinto Gigante, gli allievi Vincenzo Franceschini, Teodoro Duclère, Gabriele Smargiassi, nonché intere famiglie come quella dei Gigante con Giacinto, Achille, Ercole ed Emilia, quella dei  Fergola e quella dei Carelli, capeggiata dal capostipite Raffaele e dai figli Gabriele, Consalvo e Achille. La scuola di pittura di Posillipo, nasce dal vento del neoclassicismo che spira sulla penisola forte e impetuoso. Gli esponenti della corrente classica dell'epoca, usano l'appellativo “Posillipo” come dispregiativo. Essi, abituati alle opere classiche, non vedono di buon occhio quel concentrato di anticonformismo che è il genere pittorico di Posillipo. Lo ritengono un'accozzaglia di linee fuori prospettiva, macchie non delineate, imprecisioni e canoni prospettici fuori dalla logica dell'epoca. Dileggiano e bandiscono quella nuova ventata artistica che si fa strada dalla città partenopea. Finisce, invece, che quei piccoli capolavori fatti su supporti come carta,  cartone e talvolta su tavole rozze riciclate, pian-piano si affermano,  diventando diretta integrazione con la cultura napoletana presso l'aristocrazia e la corte. Quei paesaggi di una Campania fiorente e bucolica, talvolta sormontata da quel gigante non sempre addormentato del Vesuvio, rende la vita facile ai vari pittori, che non riescono a smaltire le committenze ricevute. Richieste di opere vengono anche dal fiorente movimento turistico che invade la Campania dell'epoca. I turisti s'innamorano del genere giudicandolo viva espressione di una cultura emergente e foriera di nuovi movimenti. Gli artisti non si accontentano di vendere il loro prodotto, di grande qualità. Essi cercano sbocchi diversi a quella loro arte nata dalla visione quasi onirica della terra che li ospita. Lo fanno cercando punti di collegamento con la pittura francese, con quella inglese o  viaggiando verso l'oriente al fine di sviluppare nuovi temi per le loro opere aumentando, di fatto, la loro presenza nelle mostre ed esposizioni in terra straniera. A quel punto, l’arte napoletana, prima in Italia, abbandona definitivamente i canoni del tardo-barocco e del classico caravaggesco introducendo l'accostamento verso la pittura "en plein air" (all'aria aperta). La scuola di Posillipo mutuando, anche,  l'influenza della pittura europea che arriva dai Costable, dai Turner, da Monet e dagli impressionisti francesi, fa risaltare quella luce, quei colori solari e quegli effetti cromatici che già allora erano "il marchio di fabbrica" della pittura napoletana,  "vestendo con quegli indumenti" i paesaggi più classici della pittura partenopea.

Bruno Carminio.

martedì 27 marzo 2012

Divide et Impera

“Divide et impera” è una locuzione latina che tradotta letteralmente significa dividi e domina. Il potere, inteso in tutte le sue accezioni, tende a frazionare tutte le forze che a lui s’oppongono, al fine di evitare che queste si coalizzino e neutralizzino l’azione da imporre. Divide et impera è proprio l’azione intrapresa, da questo governo Monti, per la modifica del mercato del lavoro ed in particolare dell’articolo 18. L’enunciato “le aziende non investono in Italia in quanto non c’è flessibilità nel mondo del lavoro” è totalmente falsa e destituita di ogni fondamento. Camorra, malaffare, corruzione (ad ogni livello), concussione, contraffazione, mancanze d’infrastrutture e conflitti d’interesse non spaventano l’investitore estero, lo atterrisce il fatto che non può licenziare (quando vuole) qualche lavoratore per motivi “economici”. Ma cosa significa “motivo economico”? Ho letto da qualche parte che se un imprenditore compra un centralino elettronico, allora può licenziare “per motivi economici” lo sfortunato centralinista che, semmai, ha 20 anni di servizio, una moglie, tre figli in età scolastica ed un mutuo. Tralasciamo le sirene che vogliono un mercato del lavoro pronto ad accogliere il povero centralinista e vediamo cosa accade dopo il licenziamento. Il lavoratore ricorre al magistrato che, nella migliore delle ipotesi, obbliga il datore di lavoro a versare un’indennità monetaria al centralinista. L’imprenditore progressista, dopo un po’, s’accorge (guarda, guarda) che il centralino elettronico non è né funzionale né economico ed allora che fa? Assume un nuovo centralinista giovane ed a basso costo. Tutti felici? No, solo l’imprenditore. Il vecchio centralinista vivrà ancora 2 anni con la “cospicua” indennità e poi… poi sono cavoli suoi. Il nuovo centralinista sarà felice fino al momento in cui assumerà le fattezze del vecchio licenziato per “motivi economici”. Nel frattempo, però, il nuovo assunto osannerà oggi quel che maledirà domani. Da tutto ciò si potrebbe evincere che la modifica dell’articolo 18 va rigettata senza se e senza ma. Non è così, perché  entra in gioco il governo, cioè il potere. Quest’entità astratta, ma ben connotata negli interessi comuni, ammannisce i giovani facendo credere loro che la modifica dell’articolo 18 apre loro le porte al mondo del lavoro e, così, mi figlio mi dirà che per colpa mia, che non voglio la modifica, lui non potrà lavorare. Ma, se è vero che dire male è peccato ma spesso s’indovina, allora lancio una pietra nello stagno. “Motivo economico” può significare anche che non mi conviene “economicamente” tenere al lavoro un trentenne, meglio un diciottenne, costa meno. 

venerdì 16 marzo 2012

17 marzo: Lutto nazionale

Il 18 febbraio del 1861 viene convocata la prima seduta del Parlamento italiano. Un mese dopo, il 17 marzo dello stesso anno, Vittorio Emanuele II è incoronato primo Re d’Italia. Il 17 marzo va, senz’altro, ricordato come un giorno infausto per le genti del SUD. Il massacro si è compiuto, ma non definitivamente. Il fiume di sangue versato dai piemontesi, in nome di un’unità non chiesta ma imposta, aspetta ancora l’ondata di piena che di lì a poco andrà a verificarsi. In nome di un’unità vile e fraudolenta, bramata da pochi intellettuali, spariscono dalle cartine geografiche interi paesi e frazioni. Si riducono, drasticamente, le densità abitative di numerosissimi paesi. Tutto ciò per un fattore dovuto alla necessaria emigrazione di grandi masse popolari verso altre terre e verso altri …cieli. Il genocidio compiuto dal piemontese rimarrà indelebile sulla coscienza sua e della sua discendenza. Non si sopiscono le imploranti e strazianti voci di vecchi, donne e bambini invocanti pietà per il sanguinoso destino che li aspetta. Ancora si odono i crepitii delle fiamme che si alzano alte dalle case dei coloni, ancora si percepisce il fetore di morte ed il tonfo sordo di baionette che violentano i corpi degli inermi. Il barbaro piemontese, immeritatamente definito “Re galantuomo” e “Padre della patria” affida ai suoi macellai il compito di portare a termine la mattanza. Il SUD viene depredato, denudato e deriso e le sue industrie trasferite al nord. Quelle poche che sopravvivono vengono invase da novelli Unni, masse di operai del nord che si trasferiscono al SUD, mentre ai nostri lavoratori non resta altro che un posto di ponte su una nave che fa rotta per gli oceani del mondo o, in alternativa, una camera all’hotel “Fenestrelle”, lager savoiardo a 5 stelle accessoriato con grandi piscine di calce viva. Il mondo intero inorridisce mentre i figli di Savoia e di Albione affondano la lorda bocca nel fiero pasto. Tutto si è compiuto. Ma non è unità, è annessione a seguito d’invasione. Il vile monarca piemontese (prerogativa, questa, dei suoi discendenti) non si degna nemmeno di una dichiarazione di guerra. No, egli dall’alto della sua arroganza, attende che qualcuno gli serva il tutto su di un piatto, non d’argento, ma d’oro massiccio. Il nizzardo, pentito postumo, obbedisce ed il tradimento stende il suo tappeto rosso. Le grandi città del Regno delle Due Sicilie perdono il loro ruolo di catalizzatore di cultura e progresso ed assurgono a quello di colonie, da sfruttare prima ed abbandonare poi. Il 17 marzo del 1861 non si può parlare di unità d’Italia, ma di furto continuato e con destrezza. Pseudo intellettualoidi s’affannarono ieri, come oggi, a mistificare la realtà attraverso testi scolastici ed aedi prezzolati. Per loro sventura la risacca è più forte dell’onda che l’ha provocata ed i fragili castelli di carta cominciano a scricchiolare sotto i loro piedi. La storia va riscritta partendo dai fatti e non dalle mistificazioni chiuse negli improfanabili forzieri della vergogna. Per questi motivi noi, genti del SUD, non possiamo festeggiare il 17 marzo in quanto, lo stesso, rappresenta giornata di lutto nazionale. 

mercoledì 22 febbraio 2012

Il meridione dopo l'unità


Taverna della Catena

All'indomani della unificazione del regno da parte di Garibaldi, divenne luogo comune l'affermazione che il Nord fosse una società industriale avanzata , mentre il Sud altro non era che una società agraria arretrata. Ma i motivi veri di questo enorme divario sono da ricercare in diversi fattori che vanno al di la delle affermazioni del Croce che, ne attribuisce le cause alle strutture istituzionali ed organizzative; oppure di Gramsci che, comunque, concorda col Croce sulla diversità organizzativa delle città e dei centri urbani nel Nord ed il sistema feudale nel Sud. Alcune cause sono da ricercare nella morfologia del suolo e del clima, secco, arido e privo di minerali il Sud; la distanza dai mercati europei, nonché da quei luoghi che avevano iniziato la rivoluzione industriale; Queste differenze non fecero altro che accelerare l'evoluzione del settentrione, a fronte di un forte ritardo del meridione, si verificò quelli che alcuni chiamarono: effetto cumulativo del processo di crescita e che portò ad uno sviluppo del tipo "Gesellschaft" (evoluzione rapporti sociali e propensione al mutamento) al Nord e di "Gemeinschaft" (organizzazione familiare dominata da costumi e tradizioni) al sud. Se poi a questo si aggiunge la politica di governo, nel decennio 1878-1887, con l'aumento tariffario che, aumentando i dazi su grano e beni industriali, significò per il Sud la chiusura dei mercati esteri (Francia in particolare), allora ecco che si spiega il fallimento del meridione. Al sud non si era verificato nessun processo di sviluppo agrario, anche grazie agli accordi intercorsi tra Cavour e la borghesia terriera meridionale che trasformarono l'insurrezione dei contadini in un processo di brigantaggio come scrisse, nel 1861, Diomede Pantaleone a Minghetti: "i proprietari sentono che senza di noi ed il nostro esercito sarebbero sgozzati dai briganti". Ma il colpo definitivo, quello fondamentale fu l'emigrazione della mano d'opera e la conseguente crescita di una massa inattiva che viveva sulle rimesse e sui pochissimi lavoratori rimasti. Tutto questo portò all'enunciazione dell'economista classico-liberal americano, G. Hildebrand: "...in mancanza di un drastico intervento dello Stato, il Mezzogiorno era condannato fin dall'inizio; incapace com'era di difendersi, potesa solo tentare di diminuire in qualche modo l'enorme divario che lo separava dal Nord più fortunato". Quanto finora esposto, si amplificò a dismisura nella città di Napoli, antica capitale del Regno, con la perdita dei suoi privilegi e col decentramento del potere economico verso il Nord; Napoli che era cresciuta sulle spalle del suo entroterra, si trovò, di colpo, svuotata e divenne, come disse Compagna, "La testa troppo ingrandita di un corpo apoplettico". Cerchiamo di analizzare quella che fu la situazione economica nella quale si venne a trovare il Regno dopo il 1860. Dopo l'unità d'Italia, la divaricazione fra Nord e Sud, era data essenzialmente dalla diversità dei quadri sociali ed economici che, mentre nel Settentrione avevano assunto già una configurazione di tipo capitalistico, nel Meridione si erano fermati ad uno stadio precapitalistico di tipo feudale caratterizzato da una tendenza conservatrice e di gretto immobilismo negli alti gradi della borghesia. Il ceto medio meridionale, inoltre, a differenza di quello settentrionale, era subordinato all'aristocrazia nobiliare e quindi incapace di poter assurgere al rango di nucleo propulsore dello sviluppo e dell'indispensabile processo di rinnovamento. La politica adottata dalla classe dirigente post-unitaria non solo ignorò, di fatto, il problema del divario sorto con l'unificazione, ma lo accentuò mettendo in crisi l'iniziativa industriale del Napoletano; in tal modo, invece di accelerare lo sviluppo economico del Sud si preparò il declino delle strutture già esistenti, come nel caso dell'unificazione dei sistemi finanziari e del nuovo sistema tributario. Nel prelievo fiscale, infatti, nella seconda metà dell'800 si realizza una forte sperequazione Nord e Sud, soprattutto per quel che riguarda la spesa pubblica. La tabella seguente mostra come, al Sud, il prelievo fiscale pro capite sia più del doppio della spesa dello stato per abitante, mentre in Liguria la spesa è superiore al prelievo ed in Toscana si equivale.
Percentuale di reddito pagato e percentuale di spesa pubblica x abitante nel 1890:
Regione        Tasse x ab.              Spesa x ab.
Basilicata     18,53%                                  8,77%
Calabria        18,54%                                  11,26%
Liguria          52,71%                                  71,15%
Toscana       37,67%                                  37,56%
Nello stesso periodo, inoltre, si realizzava il trasferimento verso il Nord di notevoli mezzi finanziari dal Meridione per sanare il deficit pubblico del Piemonte, rilevante a causa delle guerre sostenute e del continuo potenziamento dell'esercito. Per il Sud, così, si veniva a creare una situazione di sudditanza finanziaria che, oltre a mortificare gli slanci imprenditoriali, ne impediva lo sviluppo. Le industrie esistenti nel Regno delle Due Sicilie, in modo particolare quelle napoletane e salernitane, operanti nel campo meccanico, siderurgico e della lavorazione di lino e canapa, denotavano una certa vitalità e prosperità, anche se la loro attività era protetta dalle alte tariffe doganali borboniche e da una forte domanda dello Stato stesso Anche per quel che riguarda le società per azioni, il divario fra il Nord ed il Sud si allargava sempre più. Nel 1865 l'87,1 % del capitale delle società per azioni era concentrato nel Nord-Ovest, il 2,2 % nel Nord-Est, il 6,5 % nel Centro ed il 4,2 % nel Sud. Mentre lo sviluppo economico nel Sud attraversava una fase di ristagno e recessione, al Nord prosperava l'industria tessile che, dopo aver assimilato un gran numero di piccole imprese artigiane, impiegava mano d'opera specializzata, divenendo la forza trainante di tutta l'industria italiana. Contemporaneamente, nelle maggiori città, si ponevano le basi per il decollo dell'industria pesante. In Piemonte e Lombardia, inoltre, l'agricoltura presentava caratteristiche di progresso non dissimili da quelle del resto dell'Europa avanzata: l'introduzione e la sperimentazione di nuove tecniche agricole, l'uso di mano d'opera salariata, l'allevamento del bestiame e l'industria casearia, avevano portato la produzione a livelli più che buoni . Tra i primi a dare l'avvio all'indagine storica sul problema economico del Mezzogiorno fu Francesco Saverio Nitti con la sua inchiesta sulla ripartizione territo­riale delle entrate e della spesa pubblica in Italia dal 1862 al 1896-97, poi seguita da quella che poneva a confronto le condizioni economiche di Napoli prima e dopo l'Unità. Attraverso i suoi studi, Nitti giungeva alla paradossale conclusione che il sistema borbonico sembrava essere il più indicato per incrementare la ricchezza nel Mezzogiorno . Il prelievo fiscale non era gravoso ed il sistema di esazione molto semplice; il debito pubblico era 1/4 di quello del Piemonte, i beni demaniali ed ecclesiastici avevano un valore elevatissimo e la quantità di moneta circolante era pari al doppio di quella di tutti gli altri Stati della penisola messi insieme. In questo tipo di sistema, però, il credito veniva praticato soprattutto da usurai o da grandi proprietari, che prelevavano dagli istituti di credito denaro a basso tasso e lo concedevano ad altissimo interesse. Gli stessi istituti di credito si comportavano in maniera dualistica nella concessione di fidi: denaro a basso costo ai grandi proprietari e tassi alti ai contadini. Un sistema siffatto non agevolava l'agricoltura: i contadini (che molto spesso raccoglievano appena quel che bastava per la sussistenza) erano costretti, infatti, a pagare degli interessi tali da scoraggiarli nell'impegnare grosse somme nell'innovazione della lavorazione della terra. Le famiglie erano numerose, onde poter disporre di più braccia, l'innovazione non era praticabile per mancanza di fondi,la produzione restava relegata all'autoconsumo, ogni tentativo di ricorso al credito creava situazioni finanziarie disastrose.

lunedì 20 febbraio 2012

Studio aperto cloaca dell'informazione


Ancora una volta mi vedo costretto a scrivere per colpa di qualche insulso individuo che, chissà come è stato autorizzato a fregiarsi del titolo di giornalista. Poi, approfondendo la cosa, ho visto che lavorava per la TV privata di Casa Arcore, alle dipendenze di tale Fede Emilio, e che si fa chiamare Alessandro Ongarato, e tutto mi è stato chiaro. Il  14 febbraio di quest’anno, la signora o signorina, s’ignora, Alessandra balletto presenta il servizio(?!)  "Neve anche alle pendici del Vesuvio. Le forze dell'Ordine per una volta non sono andate lì per arrestare evasori fiscali, ma per soccorrere famiglie isolate dalla tormenta di neve". Questo signore, disinformato, in mala fede, pseudo leghista, dipendente tout court di inquisiti ai massimi livelli,  alla stregua di tutti i suoi simili, parla di cose che non sa e mente sapendo di mentire. Analizziamo la cosa. Fatto: la massima evasione fiscale parziale e/o totale, per numero di evasori e per importi avviene al nord; le escamotages e le scatole cinesi per evitare le tasse sono di matrice nordista. Miliardi di euro spariscono al nord, mentre qualche panettiere di Benevento non fa scontrini per qualche decina di euro. Ma a parte questi dati che sono noti a tutti, meno che all’Ongarato, è triste, volgare, provocatorio, becero, squallido e da persone affetti da deficit mentali, usare luoghi comuni sul Sud delinquenziale, evasore e truffatore, quando l’ISTAT ci da una lettura completamente opposta e che vede il sud alle ultime posizioni in queste classifiche per nulla edificanti. Studio Aperto offende tutti i Napoletani e tutti i Meridionali. Ammesso che qualcuno lo vedesse, invitiamo amici e simpatizzanti a NON VEDERE PIU’ STUDIO APERTO su Italia Uno. MAIL A studioaperto@mediaset.it

domenica 19 febbraio 2012

Il processo Cuocolo ovvero Processo alla camorra


La mattina del 6 giugno del 1906, in località Cupa Calastro a Torre del Greco, fu rinvenuto il corpo di un uomo, ucciso con 47 coltellate e diversi colpi di mazza. Si trattava del cadavere di Gennaro Cuocolo, ladro, ricettatore, basista, nonché camorrista. Poco dopo nell'abitazione del Cuocolo, sita in Napoli alla via Nardones 95, viene trovata morta Maria Cutinelli, sua moglie, ex prostituta e conosciuta col nome di battaglia di <<la bella sorrentina>>. Le sezioni di polizia di Torre del Greco e di Napoli, si misero subito al lavoro. Fu stabilito che i due coniugi erano stati uccisi la sera precedente, il Cuocolo verso il tramonto mentre, la consorte alle 23 circa. Le indagini portarono all'arresto di Enrico e Ciro Alfano, nonché Gennaro Jacovitti, Giovanni Rapi e Gennaro Ibello, i quali si trovavano insieme ad altre persone, il giorno del delitto, nella trattoria <<Mimì a mare << a Torre del Greco, vicini al luogo dell'omicidio. Non essendosi, però, trovati validi elementi di prova che potessero incastrare i 5 arrestati, questi vennero rimessi in libertà. Tutto sembrava avviarsi verso una monotona e ricorrente archiviazione del caso con imputazioni a carico d'ignoti quando il Duca d'Aosta Emanuele Filiberto, capo del Governo Giolitti, riaprì l'inchiesta e la affidò al capitano dei carabinieri Carlo Fabroni. Il funzionario si fece affiancare, come aiutante, il maresciallo Erminio Capezzuto. Le indagini, prontamente attivate dai due andavano molto a rilento, la legge dell'omertà della camorra era inscardinabile, ci voleva un colpo di fortuna e questo arrivò, celandosi sotto le sembianze Gennaro Abbatemaggio.
Figlio di Rosa Mirelli, una stiratrice abitante a Largo Sant'Anna di Palazzo, Abbatemaggio, nato nel 1884, di professione cocchiere, dedito a piccoli furti e con facile propensione alla millanteria (più volte si era vantato di appartenere alla <<Bella società riformata>>) all'epoca delle indagini, agosto del 1906, aveva 22 anni. Ladruncolo di bassa lega si vantava di appartenere alla camorra e, a tal uopo, ostentava una cicatrice sul lato sinistro della faccia. Si poteva pensare che questa richiamasse qualche dichiaramento tra uomini d'onore, assolutamente no, questo segno di sfregio era opera di Gennaro Campoluongo, ommo pusitivo, che aveva punito l'Abbatemaggio per un oltraggio ai danni di una protetta del Campoluongo, Antonietta Zaccaria. All'epoca dell'incontro col Fabroni, Abbatemaggio si trovava nel carcere di Santa Maria Capua Vetere per scontare una pena inflittagli, nel 1903, per un furto perpetrato in casa di tale Consiglio, con la complicità della cameriera di questi, Raffaelina De Rosa, e Nazareno Di Martire. Uomo di poco spessore, l'Abbatemaggio, era stato anche confidente del commissario di polizia Peruzy del quartiere di Secondigliano. Scacciato dal Peruzy, che lo riteneva un doppiogiochista, era passato al soldo del maresciallo dei Carabinieri Capezzuto, di stanza a Capodichino. Sul finire del 1906, il maresciallo Capezzuto si recò, a Santa Maria Capua Vetere per scoprire se sapesse niente sull'omicidio Cuocolo. Dopo un'iniziale reticenza e, su insistenze e promesse del maresciallo, cominciò con piccole ammissioni e mezze parole, fino a poi fare nomi e cognomi di tutti gli appartenenti alla <<Gran Mamma>>. Naturalmente tutto con la clausola <<ccà 'e pezze e ccà 'o sapone>>[1]. Basti pensare che prima dell'arresto, Abbatemaggio, era povero in canna, dopo l'incontro con Capezzuto era proprietario di carrozza e cavallo. Stavolta, a pensare male non si sbaglia, s'indovina! Dopo sei mesi d'indagini ed interrogatori, il Capitano Fabroni, il 3 febbraio del 1907, presentò al giudice un rapporto, anche a firma dei carabinieri Volpe, Dell'Isola, Cataldo e Uggia, nel quale accusava settanta persone per camorra, di cui quarantasette per concorso in duplice omicidio premeditato a fini di vendetta e di lucro ai danni di Gennaro Cuocolo e Maria Cutinelli. Il teorema accusatorio si basava sulle dichiarazioni di Gennaro Abbatemaggio, detto <<'o cucchieriello>> e di altri cocchieri, tra i quali Antonio Ruller, Renato Abbruzzini e Gaetano Barbella. La versione fornita dagli accusatori indicava, come esecutori materiali dei due delitti, Mariano Di Gennaro detto <<'o diciassette>>, Antonio Cerrato detto <<Totonno mezapalla>>, Ferdinando De Matteo, detto <<'o piscione>>, Nicola Morra, Giuseppe Salvi e Corrado Sortino. Come mandanti del duplice omicidio Enrico Alfano, detto <<Erricone>>, capo effettivo della camorra napoletana, il capintesta Luigi Fucci, 'o gassusaro, e Gennaro De Marinis. L'accusatore affermò che, Di Gennaro e Sortini, con la scusa di un sopralluogo da farsi per un furto, attirarono il Cuocolo a Cupa Calastro, dove erano ad attenderli il Morra ed il Cerrato. Una volta sul luogo fu consumato il delitto. Subito dopo il Sortini ritornò a Napoli, dove incontrò Salvi e Di Matteo, con i quali si recò in casa Cuocolo ed uccise la Cutinelli. Il movente, descritto dall'Abbatemaggio, era da ricercarsi in una spiata di Gennaro Cuocolo. Il fatto era il seguente. Gennaro Cuocolo, istigato dalla moglie Maria Cutinelli, aveva denunziato tale Luigi Arena, detto <<Coppola Rossa>> per un furto in un appartamento di via Chiatamone. Arena aveva scritto alla sorella chiedendo che si facesse suo tramite, presso la camorra, per ottenere riparazione allo sgarro. Gennaro De Marinis, detto il <<Mandriere>>, amico di Arena chiese la riunione del tribunale della camorra che avvenne il 26 maggio del 1906, nel ristorante <<Coppola>> a Bagnoli. Il consesso, con Presidente Luigi Fucci, che fungeva da accusatore, Enrico Alfano, e Giovanni Rapi pronunciò una sentenza di morte per i Cuocolo, sentenza da eseguirsi il cinque del mese seguente. Furono spiccati i mandati di cattura, vennero arrestati tutti gli accusati più un gran numero di camorristi ed il prete don Ciro Vittozzi. Enrico Alfano si era imbarcato, in qualità di fuochista e sotto il falso nome di Enrico Alfonso, su un transatlantico diretto negli Stati Uniti. A Brooklyn fu accolto, da membri della <<Mano Nera>>, presso la famiglia di Pellegrino Morano detto <<Don Grino>>. Sembrava tutto risolto per Erricone ma fu, invece,  arrestato da Joe Petrosino a New York, nel quartiere di Harlem, il 17 aprile del 1907[2]. A nostro avviso, in America, lo avevano <<cantato>>[3]. Alfano, essendo il Mammasantissima della camorra napoletana avrebbe rivestito di diritto, oltre oceano, la stessa carica e, di conseguenza, avrebbe avuto diritto a gran parte degli introiti della mano nera, oltre all'obbedienza di tutti i camorristi di terra d'America. A molti di loro, questo, potrebbe non essere andato a genio e, quindi, aver architettato l'arresto dell'Alfano. Erricone fu estradato in Francia a Le Havre e poi  in quel di Partenope. A Napoli l'atmosfera s'era fatta incandescente e fu deciso, onde evitare manifestazioni e disordini, di spostare il processo da Napoli a Viterbo. Continuavano, parallelamente, le indagini della polizia che aveva ipotizzato un altro teorema d'accusa. Il delegato di P.S. Nicola Ippolito asseriva che i Cuocolo erano stati uccisi da Tommaso De Angelis e Gaetano Amodeo, complici del Cuocolo che, per vendicarsi di uno sgarro del complice lo avevano eliminato; i fatti erano avvalorati dal ritrovamento, in casa Amodeo, di una cravatta nera uguale a quella trovata in casa Cuocolo e dalle asserzioni del sacerdote Ciro Vittozzi e di Giacomo Ascrittore, confidente di polizia. In modo particolare, l'Ascrittore, dichiarò che De Angelis gli aveva confidato di aver ucciso il Cuocolo in quanto, questi, non aveva voluto dividere il bottino di alcuni colpi effettuati con lui e con l'Amodeo. La polemica che ne nacque divenne violenta, i carabinieri accusavano la polizia di voler coprire i camorristi, la polizia accusava i carabinieri di protagonismo. Il commissario Ippolito, il maresciallo Geremicchi ed altri funzionari di P.S. vennero incriminati per corruzione e, anche se furono assolti per non aver commesso il fatto, le indagini sul De Angelis e sull'Amodeo vennero interrotte. La magistratura sposò la tesi del capitano Fabroni quindi, nell'ottobre del 1907, il Sostituto procuratore del Re, De Tilla, pronunciò il suo atto accusatorio contro Erricone e tutti gli affiliati. Il processo ebbe inizio l'11 maggio del 1911 a Viterbo, e si concluse l'8 luglio del 1912. Lo svolgersi di questo processo ebbe vasta eco su tutti i giornali, locali, italiani e stranieri e fu molto seguito, anche perché da duplice omicidio si era trasformato in processo alla camorra. Sul New York Times, il 1° aprile del 1911 era stampato

<<This was Alfano's day -- Enrico Alfano, alias <<Erricone,>> the reputed head of the most monstrous criminal organization on earth.>>

 (Questo è stato il giorno di Alfano - Enrico Alfano, alias <<Erricone>>, il  rinomato capo della più mostruosa organizzazione criminale sulla terra.).
Nell'anno trascorso a dibattere le tesi accusatorie e quelle difensive, emersero molti fatti inquietanti che, seppur determinanti per lo svolgimento e l'esito del processo, non furono tenuti nel debito conto dai Presidenti Bianchi e Carretto e dalla giuria. Si appurò che le indagini condotte dal capitano Carlo Fabroni erano approssimative e, in alcuni casi erano state artatamente condotte; alcune prove, determinanti, erano state costruite e, un gran numero di iter procedurali erano stati stravolti. Coloro che, nel corso delle indagini, avevano denunciato questo modo di procedere, furono o arrestati o costretti alle dimissioni. Il magistrato Lucchesi Palli, che aveva constatato gli arbitri dei carabinieri, fu rimosso dall'incarico; il giudice Morelli fu costretto alle dimissioni; il carabiniere Lippiello venne rinchiuso nel manicomio criminale di Aversa; il delegato di P.S. Catalano fu trasferito; altri poliziotti furono accusati di complicità ed arrestati. Tutte le colpe contestate a costoro non furono mai provate, ciò nonostante furono, comunque, allontanati. L'impianto accusatorio che si basava su tre punti, fu completamente demolito dagli avvocati difensori.
Il primo punto, il movente.
Abbatemaggio, in un primo momento, lo indicò in una spiata di Cuocolo ai danni di Arena, poi cambiò versione e affermò che, il Cuocolo, era stato ucciso in quanto ricattava il Rapi, accusandolo di essere un ricettatore. Questo movente, nel corso di un successivo dibattimento cadde in quanto, il Tribunale di Napoli, assolse il Rapi dalle accuse di ricettazione mossegli dall'Abbatemaggio.
Il secondo punto, le prove.
Il rapporto del capitano Fabroni e del maresciallo Capezzuto identificavano come prova decisiva un anello con le iniziali G. C., cioè Gennaro Cuocolo, rinvenuto nell'abitazione del Salvi, un anno dopo il delitto. Questa prova risultò falsa in quanto fu, poi, stabilito che quelle iniziali furono apposte diverso tempo dopo che il delitto era stato commesso.
Il terzo punto, le testimonianze.
L'accusa presentò tutti i testimoni come affidabilissimi e sinceri, mentre la difesa dimostrò, senza ombra di dubbio, la loro assoluta inaffidabilità, i loro precedenti penali e, addirittura la non presenza all'omicidio di un testimone oculare, tale D'Agostino, il quale il giorno del delitto si trovava, invece, a Roma presso la caserma del 13° reggimento di artiglieria a svolgere il servizio militare.
Quindi, movente inesistente; prove manipolate e/o create; corruzione di testimoni, da parte del capitano Fabroni, detto <<'O masto Gruosso>>; intimidazione di giudici e poliziotti. Tutti elementi che avrebbero dovuto concorrere, se non all'annullamento del processo, all'assoluzione di tutti gli accusati, invece con una maggioranza di otto giurati a favore e quattro contro, dopo 282 udienze, l'escussione di 652 testi e, dopo l'udienza fiume del capitano Fabroni, durata 67 sedute con 530 pagine di verbali, alle 22,10 del 9 luglio del 1912 furono emesse le seguenti condanne:
30 anni per Sortino, Salvi, Morra, Cerrato e Di Gennaro quali
     esecutori materiali del delitto;
30 anni per Alfano, Rapi, De Marinis quali mandanti;
25 anni e sei mesi a De Matteo quale mandante;
 9 anni per Ascrittore;
 6 anni a Don Ciro Vittozzi (condannato anche a versare,
    insieme ad Ascrittore, 10.000 lire al De Angelis ed
    altrettante all'Amodeo);
 5 anni a Fucci, Desiderio, De Lucia e altri per associazione a
    delinquere:
e svariate pene da 3 a 2 anni per gli altri.
Assolti Luigi Arena e Luigi Ibello, più qualche imputato minore.
Giustizia / ingiustizia era fatta.
Pochi mesi dopo il verdetto del Tribunale di Viterbo, nell'ottobre del 1912, quei cocchieri, testi dell'accusa, vennero denunciati per falsa testimonianza e, alcuni di loro, arrestati.
I vari ricorsi dei condannati, che si basavano sulla prova delle menzogne dei testi d'accusa, furono tutti respinti. Il processo per falsa testimonianza dei cocchieri fu ritardato e, poi, rimandato alla fine degli eventi bellici della seconda guerra mondiale. Una volta finita la guerra ci si accorse che i reati di falsa testimonianza si erano prescritti. Era chiaro che non si aveva alcuna intenzione di rifare il processo. Questo avrebbe significato dimostrare, anche, il comportamento arrogante dei carabinieri, i vari tentativi di corruzione da questi effettuati e la fabbricazione di prove false. Accadde, però, che nel maggio del 1927, Gennaro Abbatemaggio, consegnò all'avvocato Salomone, uno dei 23 avvocati difensori del processo Cuocolo, un memoriale nel quale ritrattava tutte le accuse mosse, dichiarando di essere stato spinto a tanto dal maresciallo Capezzuto. Non bastò per la revisione del processo e bisognò attendere la concessione della grazia da parte di Mussolini. Il Duce ritenne che, come il prefetto Mori aveva annientato la mafia, così Fabroni aveva cancellato la camorra per cui, <<spaziando i provvedimenti nel tempo>> tutti gli imputati furono rimessi in libertà.



[1] Prima i soldi e poi le soffiate
[2] A questo proposito, per lungo tempo si é sospettato che tra i mandanti
      del Petrosino, trucidato a Palermo il 12 marzo del 1909, ci fosse anche
      l'Alfano.
[3] Tradito