mercoledì 22 febbraio 2012

Il meridione dopo l'unità


Taverna della Catena

All'indomani della unificazione del regno da parte di Garibaldi, divenne luogo comune l'affermazione che il Nord fosse una società industriale avanzata , mentre il Sud altro non era che una società agraria arretrata. Ma i motivi veri di questo enorme divario sono da ricercare in diversi fattori che vanno al di la delle affermazioni del Croce che, ne attribuisce le cause alle strutture istituzionali ed organizzative; oppure di Gramsci che, comunque, concorda col Croce sulla diversità organizzativa delle città e dei centri urbani nel Nord ed il sistema feudale nel Sud. Alcune cause sono da ricercare nella morfologia del suolo e del clima, secco, arido e privo di minerali il Sud; la distanza dai mercati europei, nonché da quei luoghi che avevano iniziato la rivoluzione industriale; Queste differenze non fecero altro che accelerare l'evoluzione del settentrione, a fronte di un forte ritardo del meridione, si verificò quelli che alcuni chiamarono: effetto cumulativo del processo di crescita e che portò ad uno sviluppo del tipo "Gesellschaft" (evoluzione rapporti sociali e propensione al mutamento) al Nord e di "Gemeinschaft" (organizzazione familiare dominata da costumi e tradizioni) al sud. Se poi a questo si aggiunge la politica di governo, nel decennio 1878-1887, con l'aumento tariffario che, aumentando i dazi su grano e beni industriali, significò per il Sud la chiusura dei mercati esteri (Francia in particolare), allora ecco che si spiega il fallimento del meridione. Al sud non si era verificato nessun processo di sviluppo agrario, anche grazie agli accordi intercorsi tra Cavour e la borghesia terriera meridionale che trasformarono l'insurrezione dei contadini in un processo di brigantaggio come scrisse, nel 1861, Diomede Pantaleone a Minghetti: "i proprietari sentono che senza di noi ed il nostro esercito sarebbero sgozzati dai briganti". Ma il colpo definitivo, quello fondamentale fu l'emigrazione della mano d'opera e la conseguente crescita di una massa inattiva che viveva sulle rimesse e sui pochissimi lavoratori rimasti. Tutto questo portò all'enunciazione dell'economista classico-liberal americano, G. Hildebrand: "...in mancanza di un drastico intervento dello Stato, il Mezzogiorno era condannato fin dall'inizio; incapace com'era di difendersi, potesa solo tentare di diminuire in qualche modo l'enorme divario che lo separava dal Nord più fortunato". Quanto finora esposto, si amplificò a dismisura nella città di Napoli, antica capitale del Regno, con la perdita dei suoi privilegi e col decentramento del potere economico verso il Nord; Napoli che era cresciuta sulle spalle del suo entroterra, si trovò, di colpo, svuotata e divenne, come disse Compagna, "La testa troppo ingrandita di un corpo apoplettico". Cerchiamo di analizzare quella che fu la situazione economica nella quale si venne a trovare il Regno dopo il 1860. Dopo l'unità d'Italia, la divaricazione fra Nord e Sud, era data essenzialmente dalla diversità dei quadri sociali ed economici che, mentre nel Settentrione avevano assunto già una configurazione di tipo capitalistico, nel Meridione si erano fermati ad uno stadio precapitalistico di tipo feudale caratterizzato da una tendenza conservatrice e di gretto immobilismo negli alti gradi della borghesia. Il ceto medio meridionale, inoltre, a differenza di quello settentrionale, era subordinato all'aristocrazia nobiliare e quindi incapace di poter assurgere al rango di nucleo propulsore dello sviluppo e dell'indispensabile processo di rinnovamento. La politica adottata dalla classe dirigente post-unitaria non solo ignorò, di fatto, il problema del divario sorto con l'unificazione, ma lo accentuò mettendo in crisi l'iniziativa industriale del Napoletano; in tal modo, invece di accelerare lo sviluppo economico del Sud si preparò il declino delle strutture già esistenti, come nel caso dell'unificazione dei sistemi finanziari e del nuovo sistema tributario. Nel prelievo fiscale, infatti, nella seconda metà dell'800 si realizza una forte sperequazione Nord e Sud, soprattutto per quel che riguarda la spesa pubblica. La tabella seguente mostra come, al Sud, il prelievo fiscale pro capite sia più del doppio della spesa dello stato per abitante, mentre in Liguria la spesa è superiore al prelievo ed in Toscana si equivale.
Percentuale di reddito pagato e percentuale di spesa pubblica x abitante nel 1890:
Regione        Tasse x ab.              Spesa x ab.
Basilicata     18,53%                                  8,77%
Calabria        18,54%                                  11,26%
Liguria          52,71%                                  71,15%
Toscana       37,67%                                  37,56%
Nello stesso periodo, inoltre, si realizzava il trasferimento verso il Nord di notevoli mezzi finanziari dal Meridione per sanare il deficit pubblico del Piemonte, rilevante a causa delle guerre sostenute e del continuo potenziamento dell'esercito. Per il Sud, così, si veniva a creare una situazione di sudditanza finanziaria che, oltre a mortificare gli slanci imprenditoriali, ne impediva lo sviluppo. Le industrie esistenti nel Regno delle Due Sicilie, in modo particolare quelle napoletane e salernitane, operanti nel campo meccanico, siderurgico e della lavorazione di lino e canapa, denotavano una certa vitalità e prosperità, anche se la loro attività era protetta dalle alte tariffe doganali borboniche e da una forte domanda dello Stato stesso Anche per quel che riguarda le società per azioni, il divario fra il Nord ed il Sud si allargava sempre più. Nel 1865 l'87,1 % del capitale delle società per azioni era concentrato nel Nord-Ovest, il 2,2 % nel Nord-Est, il 6,5 % nel Centro ed il 4,2 % nel Sud. Mentre lo sviluppo economico nel Sud attraversava una fase di ristagno e recessione, al Nord prosperava l'industria tessile che, dopo aver assimilato un gran numero di piccole imprese artigiane, impiegava mano d'opera specializzata, divenendo la forza trainante di tutta l'industria italiana. Contemporaneamente, nelle maggiori città, si ponevano le basi per il decollo dell'industria pesante. In Piemonte e Lombardia, inoltre, l'agricoltura presentava caratteristiche di progresso non dissimili da quelle del resto dell'Europa avanzata: l'introduzione e la sperimentazione di nuove tecniche agricole, l'uso di mano d'opera salariata, l'allevamento del bestiame e l'industria casearia, avevano portato la produzione a livelli più che buoni . Tra i primi a dare l'avvio all'indagine storica sul problema economico del Mezzogiorno fu Francesco Saverio Nitti con la sua inchiesta sulla ripartizione territo­riale delle entrate e della spesa pubblica in Italia dal 1862 al 1896-97, poi seguita da quella che poneva a confronto le condizioni economiche di Napoli prima e dopo l'Unità. Attraverso i suoi studi, Nitti giungeva alla paradossale conclusione che il sistema borbonico sembrava essere il più indicato per incrementare la ricchezza nel Mezzogiorno . Il prelievo fiscale non era gravoso ed il sistema di esazione molto semplice; il debito pubblico era 1/4 di quello del Piemonte, i beni demaniali ed ecclesiastici avevano un valore elevatissimo e la quantità di moneta circolante era pari al doppio di quella di tutti gli altri Stati della penisola messi insieme. In questo tipo di sistema, però, il credito veniva praticato soprattutto da usurai o da grandi proprietari, che prelevavano dagli istituti di credito denaro a basso tasso e lo concedevano ad altissimo interesse. Gli stessi istituti di credito si comportavano in maniera dualistica nella concessione di fidi: denaro a basso costo ai grandi proprietari e tassi alti ai contadini. Un sistema siffatto non agevolava l'agricoltura: i contadini (che molto spesso raccoglievano appena quel che bastava per la sussistenza) erano costretti, infatti, a pagare degli interessi tali da scoraggiarli nell'impegnare grosse somme nell'innovazione della lavorazione della terra. Le famiglie erano numerose, onde poter disporre di più braccia, l'innovazione non era praticabile per mancanza di fondi,la produzione restava relegata all'autoconsumo, ogni tentativo di ricorso al credito creava situazioni finanziarie disastrose.

lunedì 20 febbraio 2012

Studio aperto cloaca dell'informazione


Ancora una volta mi vedo costretto a scrivere per colpa di qualche insulso individuo che, chissà come è stato autorizzato a fregiarsi del titolo di giornalista. Poi, approfondendo la cosa, ho visto che lavorava per la TV privata di Casa Arcore, alle dipendenze di tale Fede Emilio, e che si fa chiamare Alessandro Ongarato, e tutto mi è stato chiaro. Il  14 febbraio di quest’anno, la signora o signorina, s’ignora, Alessandra balletto presenta il servizio(?!)  "Neve anche alle pendici del Vesuvio. Le forze dell'Ordine per una volta non sono andate lì per arrestare evasori fiscali, ma per soccorrere famiglie isolate dalla tormenta di neve". Questo signore, disinformato, in mala fede, pseudo leghista, dipendente tout court di inquisiti ai massimi livelli,  alla stregua di tutti i suoi simili, parla di cose che non sa e mente sapendo di mentire. Analizziamo la cosa. Fatto: la massima evasione fiscale parziale e/o totale, per numero di evasori e per importi avviene al nord; le escamotages e le scatole cinesi per evitare le tasse sono di matrice nordista. Miliardi di euro spariscono al nord, mentre qualche panettiere di Benevento non fa scontrini per qualche decina di euro. Ma a parte questi dati che sono noti a tutti, meno che all’Ongarato, è triste, volgare, provocatorio, becero, squallido e da persone affetti da deficit mentali, usare luoghi comuni sul Sud delinquenziale, evasore e truffatore, quando l’ISTAT ci da una lettura completamente opposta e che vede il sud alle ultime posizioni in queste classifiche per nulla edificanti. Studio Aperto offende tutti i Napoletani e tutti i Meridionali. Ammesso che qualcuno lo vedesse, invitiamo amici e simpatizzanti a NON VEDERE PIU’ STUDIO APERTO su Italia Uno. MAIL A studioaperto@mediaset.it

domenica 19 febbraio 2012

Il processo Cuocolo ovvero Processo alla camorra


La mattina del 6 giugno del 1906, in località Cupa Calastro a Torre del Greco, fu rinvenuto il corpo di un uomo, ucciso con 47 coltellate e diversi colpi di mazza. Si trattava del cadavere di Gennaro Cuocolo, ladro, ricettatore, basista, nonché camorrista. Poco dopo nell'abitazione del Cuocolo, sita in Napoli alla via Nardones 95, viene trovata morta Maria Cutinelli, sua moglie, ex prostituta e conosciuta col nome di battaglia di <<la bella sorrentina>>. Le sezioni di polizia di Torre del Greco e di Napoli, si misero subito al lavoro. Fu stabilito che i due coniugi erano stati uccisi la sera precedente, il Cuocolo verso il tramonto mentre, la consorte alle 23 circa. Le indagini portarono all'arresto di Enrico e Ciro Alfano, nonché Gennaro Jacovitti, Giovanni Rapi e Gennaro Ibello, i quali si trovavano insieme ad altre persone, il giorno del delitto, nella trattoria <<Mimì a mare << a Torre del Greco, vicini al luogo dell'omicidio. Non essendosi, però, trovati validi elementi di prova che potessero incastrare i 5 arrestati, questi vennero rimessi in libertà. Tutto sembrava avviarsi verso una monotona e ricorrente archiviazione del caso con imputazioni a carico d'ignoti quando il Duca d'Aosta Emanuele Filiberto, capo del Governo Giolitti, riaprì l'inchiesta e la affidò al capitano dei carabinieri Carlo Fabroni. Il funzionario si fece affiancare, come aiutante, il maresciallo Erminio Capezzuto. Le indagini, prontamente attivate dai due andavano molto a rilento, la legge dell'omertà della camorra era inscardinabile, ci voleva un colpo di fortuna e questo arrivò, celandosi sotto le sembianze Gennaro Abbatemaggio.
Figlio di Rosa Mirelli, una stiratrice abitante a Largo Sant'Anna di Palazzo, Abbatemaggio, nato nel 1884, di professione cocchiere, dedito a piccoli furti e con facile propensione alla millanteria (più volte si era vantato di appartenere alla <<Bella società riformata>>) all'epoca delle indagini, agosto del 1906, aveva 22 anni. Ladruncolo di bassa lega si vantava di appartenere alla camorra e, a tal uopo, ostentava una cicatrice sul lato sinistro della faccia. Si poteva pensare che questa richiamasse qualche dichiaramento tra uomini d'onore, assolutamente no, questo segno di sfregio era opera di Gennaro Campoluongo, ommo pusitivo, che aveva punito l'Abbatemaggio per un oltraggio ai danni di una protetta del Campoluongo, Antonietta Zaccaria. All'epoca dell'incontro col Fabroni, Abbatemaggio si trovava nel carcere di Santa Maria Capua Vetere per scontare una pena inflittagli, nel 1903, per un furto perpetrato in casa di tale Consiglio, con la complicità della cameriera di questi, Raffaelina De Rosa, e Nazareno Di Martire. Uomo di poco spessore, l'Abbatemaggio, era stato anche confidente del commissario di polizia Peruzy del quartiere di Secondigliano. Scacciato dal Peruzy, che lo riteneva un doppiogiochista, era passato al soldo del maresciallo dei Carabinieri Capezzuto, di stanza a Capodichino. Sul finire del 1906, il maresciallo Capezzuto si recò, a Santa Maria Capua Vetere per scoprire se sapesse niente sull'omicidio Cuocolo. Dopo un'iniziale reticenza e, su insistenze e promesse del maresciallo, cominciò con piccole ammissioni e mezze parole, fino a poi fare nomi e cognomi di tutti gli appartenenti alla <<Gran Mamma>>. Naturalmente tutto con la clausola <<ccà 'e pezze e ccà 'o sapone>>[1]. Basti pensare che prima dell'arresto, Abbatemaggio, era povero in canna, dopo l'incontro con Capezzuto era proprietario di carrozza e cavallo. Stavolta, a pensare male non si sbaglia, s'indovina! Dopo sei mesi d'indagini ed interrogatori, il Capitano Fabroni, il 3 febbraio del 1907, presentò al giudice un rapporto, anche a firma dei carabinieri Volpe, Dell'Isola, Cataldo e Uggia, nel quale accusava settanta persone per camorra, di cui quarantasette per concorso in duplice omicidio premeditato a fini di vendetta e di lucro ai danni di Gennaro Cuocolo e Maria Cutinelli. Il teorema accusatorio si basava sulle dichiarazioni di Gennaro Abbatemaggio, detto <<'o cucchieriello>> e di altri cocchieri, tra i quali Antonio Ruller, Renato Abbruzzini e Gaetano Barbella. La versione fornita dagli accusatori indicava, come esecutori materiali dei due delitti, Mariano Di Gennaro detto <<'o diciassette>>, Antonio Cerrato detto <<Totonno mezapalla>>, Ferdinando De Matteo, detto <<'o piscione>>, Nicola Morra, Giuseppe Salvi e Corrado Sortino. Come mandanti del duplice omicidio Enrico Alfano, detto <<Erricone>>, capo effettivo della camorra napoletana, il capintesta Luigi Fucci, 'o gassusaro, e Gennaro De Marinis. L'accusatore affermò che, Di Gennaro e Sortini, con la scusa di un sopralluogo da farsi per un furto, attirarono il Cuocolo a Cupa Calastro, dove erano ad attenderli il Morra ed il Cerrato. Una volta sul luogo fu consumato il delitto. Subito dopo il Sortini ritornò a Napoli, dove incontrò Salvi e Di Matteo, con i quali si recò in casa Cuocolo ed uccise la Cutinelli. Il movente, descritto dall'Abbatemaggio, era da ricercarsi in una spiata di Gennaro Cuocolo. Il fatto era il seguente. Gennaro Cuocolo, istigato dalla moglie Maria Cutinelli, aveva denunziato tale Luigi Arena, detto <<Coppola Rossa>> per un furto in un appartamento di via Chiatamone. Arena aveva scritto alla sorella chiedendo che si facesse suo tramite, presso la camorra, per ottenere riparazione allo sgarro. Gennaro De Marinis, detto il <<Mandriere>>, amico di Arena chiese la riunione del tribunale della camorra che avvenne il 26 maggio del 1906, nel ristorante <<Coppola>> a Bagnoli. Il consesso, con Presidente Luigi Fucci, che fungeva da accusatore, Enrico Alfano, e Giovanni Rapi pronunciò una sentenza di morte per i Cuocolo, sentenza da eseguirsi il cinque del mese seguente. Furono spiccati i mandati di cattura, vennero arrestati tutti gli accusati più un gran numero di camorristi ed il prete don Ciro Vittozzi. Enrico Alfano si era imbarcato, in qualità di fuochista e sotto il falso nome di Enrico Alfonso, su un transatlantico diretto negli Stati Uniti. A Brooklyn fu accolto, da membri della <<Mano Nera>>, presso la famiglia di Pellegrino Morano detto <<Don Grino>>. Sembrava tutto risolto per Erricone ma fu, invece,  arrestato da Joe Petrosino a New York, nel quartiere di Harlem, il 17 aprile del 1907[2]. A nostro avviso, in America, lo avevano <<cantato>>[3]. Alfano, essendo il Mammasantissima della camorra napoletana avrebbe rivestito di diritto, oltre oceano, la stessa carica e, di conseguenza, avrebbe avuto diritto a gran parte degli introiti della mano nera, oltre all'obbedienza di tutti i camorristi di terra d'America. A molti di loro, questo, potrebbe non essere andato a genio e, quindi, aver architettato l'arresto dell'Alfano. Erricone fu estradato in Francia a Le Havre e poi  in quel di Partenope. A Napoli l'atmosfera s'era fatta incandescente e fu deciso, onde evitare manifestazioni e disordini, di spostare il processo da Napoli a Viterbo. Continuavano, parallelamente, le indagini della polizia che aveva ipotizzato un altro teorema d'accusa. Il delegato di P.S. Nicola Ippolito asseriva che i Cuocolo erano stati uccisi da Tommaso De Angelis e Gaetano Amodeo, complici del Cuocolo che, per vendicarsi di uno sgarro del complice lo avevano eliminato; i fatti erano avvalorati dal ritrovamento, in casa Amodeo, di una cravatta nera uguale a quella trovata in casa Cuocolo e dalle asserzioni del sacerdote Ciro Vittozzi e di Giacomo Ascrittore, confidente di polizia. In modo particolare, l'Ascrittore, dichiarò che De Angelis gli aveva confidato di aver ucciso il Cuocolo in quanto, questi, non aveva voluto dividere il bottino di alcuni colpi effettuati con lui e con l'Amodeo. La polemica che ne nacque divenne violenta, i carabinieri accusavano la polizia di voler coprire i camorristi, la polizia accusava i carabinieri di protagonismo. Il commissario Ippolito, il maresciallo Geremicchi ed altri funzionari di P.S. vennero incriminati per corruzione e, anche se furono assolti per non aver commesso il fatto, le indagini sul De Angelis e sull'Amodeo vennero interrotte. La magistratura sposò la tesi del capitano Fabroni quindi, nell'ottobre del 1907, il Sostituto procuratore del Re, De Tilla, pronunciò il suo atto accusatorio contro Erricone e tutti gli affiliati. Il processo ebbe inizio l'11 maggio del 1911 a Viterbo, e si concluse l'8 luglio del 1912. Lo svolgersi di questo processo ebbe vasta eco su tutti i giornali, locali, italiani e stranieri e fu molto seguito, anche perché da duplice omicidio si era trasformato in processo alla camorra. Sul New York Times, il 1° aprile del 1911 era stampato

<<This was Alfano's day -- Enrico Alfano, alias <<Erricone,>> the reputed head of the most monstrous criminal organization on earth.>>

 (Questo è stato il giorno di Alfano - Enrico Alfano, alias <<Erricone>>, il  rinomato capo della più mostruosa organizzazione criminale sulla terra.).
Nell'anno trascorso a dibattere le tesi accusatorie e quelle difensive, emersero molti fatti inquietanti che, seppur determinanti per lo svolgimento e l'esito del processo, non furono tenuti nel debito conto dai Presidenti Bianchi e Carretto e dalla giuria. Si appurò che le indagini condotte dal capitano Carlo Fabroni erano approssimative e, in alcuni casi erano state artatamente condotte; alcune prove, determinanti, erano state costruite e, un gran numero di iter procedurali erano stati stravolti. Coloro che, nel corso delle indagini, avevano denunciato questo modo di procedere, furono o arrestati o costretti alle dimissioni. Il magistrato Lucchesi Palli, che aveva constatato gli arbitri dei carabinieri, fu rimosso dall'incarico; il giudice Morelli fu costretto alle dimissioni; il carabiniere Lippiello venne rinchiuso nel manicomio criminale di Aversa; il delegato di P.S. Catalano fu trasferito; altri poliziotti furono accusati di complicità ed arrestati. Tutte le colpe contestate a costoro non furono mai provate, ciò nonostante furono, comunque, allontanati. L'impianto accusatorio che si basava su tre punti, fu completamente demolito dagli avvocati difensori.
Il primo punto, il movente.
Abbatemaggio, in un primo momento, lo indicò in una spiata di Cuocolo ai danni di Arena, poi cambiò versione e affermò che, il Cuocolo, era stato ucciso in quanto ricattava il Rapi, accusandolo di essere un ricettatore. Questo movente, nel corso di un successivo dibattimento cadde in quanto, il Tribunale di Napoli, assolse il Rapi dalle accuse di ricettazione mossegli dall'Abbatemaggio.
Il secondo punto, le prove.
Il rapporto del capitano Fabroni e del maresciallo Capezzuto identificavano come prova decisiva un anello con le iniziali G. C., cioè Gennaro Cuocolo, rinvenuto nell'abitazione del Salvi, un anno dopo il delitto. Questa prova risultò falsa in quanto fu, poi, stabilito che quelle iniziali furono apposte diverso tempo dopo che il delitto era stato commesso.
Il terzo punto, le testimonianze.
L'accusa presentò tutti i testimoni come affidabilissimi e sinceri, mentre la difesa dimostrò, senza ombra di dubbio, la loro assoluta inaffidabilità, i loro precedenti penali e, addirittura la non presenza all'omicidio di un testimone oculare, tale D'Agostino, il quale il giorno del delitto si trovava, invece, a Roma presso la caserma del 13° reggimento di artiglieria a svolgere il servizio militare.
Quindi, movente inesistente; prove manipolate e/o create; corruzione di testimoni, da parte del capitano Fabroni, detto <<'O masto Gruosso>>; intimidazione di giudici e poliziotti. Tutti elementi che avrebbero dovuto concorrere, se non all'annullamento del processo, all'assoluzione di tutti gli accusati, invece con una maggioranza di otto giurati a favore e quattro contro, dopo 282 udienze, l'escussione di 652 testi e, dopo l'udienza fiume del capitano Fabroni, durata 67 sedute con 530 pagine di verbali, alle 22,10 del 9 luglio del 1912 furono emesse le seguenti condanne:
30 anni per Sortino, Salvi, Morra, Cerrato e Di Gennaro quali
     esecutori materiali del delitto;
30 anni per Alfano, Rapi, De Marinis quali mandanti;
25 anni e sei mesi a De Matteo quale mandante;
 9 anni per Ascrittore;
 6 anni a Don Ciro Vittozzi (condannato anche a versare,
    insieme ad Ascrittore, 10.000 lire al De Angelis ed
    altrettante all'Amodeo);
 5 anni a Fucci, Desiderio, De Lucia e altri per associazione a
    delinquere:
e svariate pene da 3 a 2 anni per gli altri.
Assolti Luigi Arena e Luigi Ibello, più qualche imputato minore.
Giustizia / ingiustizia era fatta.
Pochi mesi dopo il verdetto del Tribunale di Viterbo, nell'ottobre del 1912, quei cocchieri, testi dell'accusa, vennero denunciati per falsa testimonianza e, alcuni di loro, arrestati.
I vari ricorsi dei condannati, che si basavano sulla prova delle menzogne dei testi d'accusa, furono tutti respinti. Il processo per falsa testimonianza dei cocchieri fu ritardato e, poi, rimandato alla fine degli eventi bellici della seconda guerra mondiale. Una volta finita la guerra ci si accorse che i reati di falsa testimonianza si erano prescritti. Era chiaro che non si aveva alcuna intenzione di rifare il processo. Questo avrebbe significato dimostrare, anche, il comportamento arrogante dei carabinieri, i vari tentativi di corruzione da questi effettuati e la fabbricazione di prove false. Accadde, però, che nel maggio del 1927, Gennaro Abbatemaggio, consegnò all'avvocato Salomone, uno dei 23 avvocati difensori del processo Cuocolo, un memoriale nel quale ritrattava tutte le accuse mosse, dichiarando di essere stato spinto a tanto dal maresciallo Capezzuto. Non bastò per la revisione del processo e bisognò attendere la concessione della grazia da parte di Mussolini. Il Duce ritenne che, come il prefetto Mori aveva annientato la mafia, così Fabroni aveva cancellato la camorra per cui, <<spaziando i provvedimenti nel tempo>> tutti gli imputati furono rimessi in libertà.



[1] Prima i soldi e poi le soffiate
[2] A questo proposito, per lungo tempo si é sospettato che tra i mandanti
      del Petrosino, trucidato a Palermo il 12 marzo del 1909, ci fosse anche
      l'Alfano.
[3] Tradito

mercoledì 15 febbraio 2012

Il mio Carmine Crocco


Carmine Crocco

Carmine Crocco, detto Donatello o Donatelli, nasce il 6 giugno del 1830 a Rionero in Vulture, un comune in provincia di Potenza in Basilicata. Secondogenito di cinque figli (tre fratelli: Donato, Antonio e Marco; una sorella: Rosina), figlio di Francesco e Maria Gerarda Santomauro. La sua è una famiglia rurale, dignitosa ma povera. Traumatizzato dall’aggressione subita dalla madre, porterà in se in se i segni permanenti di questo triste evento. Il padre in carcere per un tentato omicidio mai commesso e la madre in manicomio, segnata dagli eventi infausti che coinvolgono la sua famiglia, Carmine vive un’adolescenza tribolata e segnata da un destino ineluttabile. Tralasciando la cronaca della sua vita adolescenziale arriviamo fino al 1849, quando Crocco viene chiamato alle armi nell’esercito borbonico di Ferdinando II delle due Sicilie. Il suo carattere risoluto e la sua indole lo portano a ricoprire, ben presto, il grado di caporale. Carmine ha 18 anni ma già porta i segni di una schiavitù morale e fisica. Nulla può e nulla ha potuto contro lo strapotere dei signorotti e nobili. In quell’epoca vigeva una politica che ruotava intorno alla titolarità ed all’esercizio di attribuire, tramite sanzioni (fisiche e morali, esercitate o minacciate) effetti vincolanti a disposizioni unilaterali su “who gets what (chi prende cosa)”. Carmine non prendeva, Carmine era la cosa. Il Nostro ne è vittima e ne subisce i devastanti effetti. Carmine Crocco deve sottostare a questo triste destino, portarne il fardello senza poter reagire, quindi riversa nella sua azione militare quella rabbia che un destino inclemente ha seminato nel suo cuore. Suo malgrado, Carmine porta in se un sentimento, più che legittimo, di riscatto morale sociale ma a metà 800 questo rappresentava una colpa, un sovvertire dell’ordine costituito. Carmine era colpevole ancor prima di commettere i suoi reati. Aveva ucciso ancor prima d’estrarre il suo coltello e le sue pallottole avevano colpito quando le aveva acquisite. Vittima o carnefice? Garibaldino o borbonico? Semplicemente un uomo teso al suo riscatto ma che, sulla sua strada trova un selciato fatto di false promesse ed illusioni. Togliete ad un uomo la dignità, la speranza, l’onore e le aspirazioni e ne avrete fatto un cane sciolto e rabbioso. A Carmine Crocco è stato tolto tutto. Hanno voluto un cane ed un cane hanno avuto. Brigante, soldato borbonico, garibaldino e poi restauratore, è forse un camaleonte? No, è un disperato, un deluso, turlupinato, schernito e messo nell’angolo. Tutti sanno cosa accade ad un  animale messo nell’angolo, lo si rende aggressivo e spietato. Così l’hanno voluto e così l’hanno avuto. Carmine è un cane addomesticato e poi inselvatichito dagli eventi e dagli uomini. “Che diritto ha un mio simile di uccidere impunemente un mio fratello e farla franca? Perché paga mia madre e mio padre per i suoi misfatti?”  Sono questi i tarli che rodono impietosamente la mente di Carmeniello. Sono impietosi. Cesare Lombroso potrà misurare il cranio del Crocco ma non riuscirà mai a decifrarne le frequenze ed i pensieri, ormai metastasi della sua esistenza. Un uomo braccato non può certo fare l’amanuense, un uomo braccato deve sopravvivere. Questo fa Carmine, cerca di sopravvivere. Per una serie di sfortunati eventi ma anche per motivi d’onore, valore intimamente rilevante nella sua vita, Crocco compie il suo primo delitto e, per sottrarsi all’arresto, diserta. Raggiunta la sua Rionero, sempre in nome dell’onore, rimette mano al suo coltello ed uccide ancora. La vittima è un tale Peppino Carli che aveva cercato di insidiare la sorella Rosina. Mette conto, però, precisare che molte delle notizie pervenuteci sulla vita di Crocco non sono verificabili né attendibili, ma poco importa se don Peppino viene accoltellato per onore o altro. Fatto è che con quell’episodio e con la diserzione, dall’agricoltore, allevatore ed ex caporale, nasce il “brigante” Crocco. Carmine, però, ha una sola cosa in mente. Una è la parola che gli rimbalza nella mente, come una scheggia impazzita: libertà. Ogni suo neurone è teso alla ricerca di una soluzione del suo problema: come fare per essere un uomo libero. Ci crede ma sbaglia. Si fida ma è deluso. Per il suo carattere focoso commette dei delitti, ma cerca l’espiazione. La cerca con Garibaldi, ma le carte del nizzardo sono fasulle. Le promesse dei liberali sono assimilabili a quelle dei più spregiudicati uomini di mare. Francesco II gli tende la mano, lo invoca. Carmine si presta in cambio della remissione dei suoi peccati. Arriva Borjes, ma il suo è un comportamento da sette carati. Crocco capisce tutto e comprende il suo destino. Ora Carmine è un brigante, un delinquente, assassino, criminale, farabutto e soggetto lombrosiano. Certamente, ma perché? Era di famiglia onesta ed è stato spinto al delitto. Gran soldato ma non compreso. Liberale ma deluso e perseguitato. Condannato a morte nel 1872, ma questa volta riceve l’ultimo fasullo favore. Il II governo Minghetti non vuole martiri e tramuta la condanna a morte in carcere a vita. Carmine Crocco non è Giuseppe Villella, Lombroso non avrà la sua testa. L’agricoltore, allevatore e caporale, voluto brigante, muore nel carcere di  Portoferraio il 18 giugno del 1905.

sabato 11 febbraio 2012

Unità d'Italia


Il 5 maggio del 1860, un’accozzaglia di 1162 straccioni, al comando di Giuseppe Garibaldi,  che Cavour aveva coinvolto al solo scopo di disfarsene,  s’imbarca, senza munizioni né polvere da sparo,  sui vapori Piemonte e Lombardo alla volta di Marsala, dove sbarcano l’11 di maggio. All’alba di questo infausto giorno, sarebbero bastate due “palle” di cannone e, noi non saremmo qui a discutere, mentre i Savoia avrebbero “pianto” i 1089 straccioni in rosso (se ne erano persi alcuni strada facendo). Mercé i tradimenti e le inettitudini dell’esercito borbonico e dei suoi ufficiali, senza tirarla per le lunghe, il futuro eroe dei due mondi, il giorno 7 settembre 1861 fa il suo “trionfale” ingresso in Napoli. Mette conto, vista la solennità dell’evento, lasciare la parola a ben più erudite e geniali menti:
Era la sera del 27 giugno del 1860, Don Liborio mi fece uscire dal gabbio e mi disse: - Tore, fra giorni qui a Napoli arriverà Giuseppe Galibardo, deve trovare una città pulita ed ordinata. Io vi metto a libertà e vi nomino responsabile della pubblica sicurezza. Voi dovete ripulire la città dai delinquenti. Ve la sentite? - Io risposi di si, mi misi una coccarda tricolore sul cappello e cominciai il mio nuovo lavoro. Con Iossa, Capuano e Mele facemmo piazza pulita. Facemmo fuori, a pugnalate, Peppe Aversano, quello era un fetentone, un infame spia del direttore della polizia Michele Ajossa, si meritava quello e pure altro. Quindi ce facettemo  all' ispettore della Polizia Perrelli. Veramente non fui io, ma Ferdinando Mele che gli tirò qualche coltellate mentre l'ispettore si trovava semi svenuto su una carretta. Infine, facemmo 'na bella mazziata all' ispettore Cioffi, che a stento salvò la pelle. La cosa più bella, però, fu la mazziata  che si buscò l'ambasciatore francese, un certo Anatole Brenier. Neh, quello si atteggiò pure: sono l'ambasciatore francese. Ah, si e tiè. Due colpi di bastone in testa e la mmommora   si aprì in due parti. Se non era per Ciccio Carfora, 'o cucchiere, che lo portò in salvo, faceva 'na brutta fine. Poi conquistammo tutti i commissariati e la gente ci dava tanti soldi, ci pagava. Ci dovevano pagare, se no significava che erano nemici della patria italiana, quindi mazzate e poi in galera. Il 7 settembre di quell'anno, zi' Peppe entrò in Napoli, me lo ricordo come se fosse adesso, erano più o meno l'una. Ci fu una carovana di carrozze. Il corteo era guidato da Michele <<’o chiazziere>>, che era uno che ritirava le tangenti dagli ambulanti della piazza e da  <<o schiavuttiello>>. Galibardo stava sulla prima carrozza con Demetrio Salazaro, il frate francescano Giovanni Pantaleo, Agostino Bertani e il conte Giuseppe Ricciardi; sulla seconda c'eravamo io, il commissario Iossa, Capuano e Mele; sulla terza mia cugina Marianna, detta 'a Sangiuvannara, tutta agghindata come un albero di Natale, … e poi c’erano  <<Rosa ‘a pazza >>, <<Luisella ‘a luma ‘ggiorno >> e <<Nannarella ‘e quatte rane >> . Si può dire che abbiamo tenuto a battesimo l'Italia, o no?.
Questo eccezionale cronista era “nientepopodimenoche” Salvatore De Crescenzo, detto Tore ‘e Criscienzo, il più grande e sanguinario camorrista dell’epoca, che un governo frettoloso ed irresponsabile aveva posto, quale responsabile,  nei palazzi della Pubblica Sicurezza di Napoli.  Fautore di cotante scelte fu tale Liborio Romano da Patù. Il suo curriculum: nel 1820 destituito dall'insegnamento di Diritto Civile e Commerciale all'Università Federico II;  sempre nel 1820 in esilio all'estero; nel 1848 tornò a Napoli e lottò per la concessione della costituzione da parte del re Ferdinando II di Borbone; poi arrestato e rispedito al confino; nel 1860 venne nominato dal re Francesco II prefetto di Polizia; nel luglio dello stesso anno venne nominato ministro di polizia ma, nel frattempo, era  anche collaboratore di Cavour; nel 1861 ministro degli interni nel provvisorio regno di Napoli perché aveva  dato aiuto a Garibaldi e, quindi, il suo contributo allo sterminio di migliaia di cittadini napoletani; fu deputato del Regno d'Italia dal 1861 al 1865. Quando si dice la coerenza!
Purtroppo, però, per il nostro Tore, a Napoli arrivò Silvio Spaventa e per la camorra furono giorni duri che culminarono in uno sciopero generale dei camorristi, esattamente il 26 aprile del 1861. A Silvio Spaventa subentrò Filippo De Blasio, un avvocato di Guardia Sanframondi. Divenne anche direttore del ministero degli interni di Cialdini. Sotto Farini era già stato prefetto di polizia. Già il governo Farini - Minghetti aveva dichiarato guerra aperta alla camorra e, tramite Aveta, furono arrestati più di trecento camorristi. Sulla base di questi arresti, il generale La Marmora, scrisse una lettera al governo, nella quale sollecitava l'adozione di misure speciali per combattere la piaga della camorra. Tra le altre cose, chiedeva la creazione di carceri speciali e possibilmente lontano dalla città, in Sardegna. Precedendo, in questo, di oltre un secolo la norma del 41 bis. Un anno dopo, il 15 agosto del 1863 fu approvata la legge Pica. Di fatto, con i nove articoli di questa legge, venne introdotto il criterio del sospetto ed il libero arbitrio, in base al quale bastava una semplice delazione, semmai dovuta a rancori personali, per provocare un arresto. Infatti la legge, all'articolo 5, così recitava
<<Il Governo avrà inoltre la facoltà di assegnare per un tempo non maggiore di un anno un domicilio coatto agli oziosi, ai vagabodi, alle persone sospette, secondo la designazione del Codice penale, non che ai camorristi, e sospetti manutengoli, dietro parere di Giunta composta dal Prefetto del Tribunale, del Procuratore del Re e di due consiglieri provinciali.>>  
Comunque, nel gennaio del 1861 l’Italia, parafrasando Cavouri, era “fatta”. Ma era stata cosa buona e giusta? Garibaldi così si confida, in una sua lettera  ad Adelaide Cairoli, nel 1868:
"Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio".
Ne’l libro “L’ordine nuovo” di Antonio Gramsci, del 1920, si legge che :  « Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti.» Potremmo liquidarla così. Ma non sarebbe giusto. La cosa è un tantino più complessa. Non voglio elencare qui le lodi o le infamie che, tanti storici, si sono scomodati a tessere ora a favore dell’uno, ora dell’altro schieramento. Briganti contro piemontesi e viceversa. Dov’è la tragedia? La tragedia è nel mezzo. Il popolo del Sud. Gli agricoltori, i coloni, i piccoli artigiani ed i diseredati. Ecco la tragedia. Un popolo che era incudine del martello piemontese se aiutava i briganti e incudine del martello dei briganti se aiutava i piemontesi. Ecco il bollettino di guerra:
8.964 fucilati, 10.604 feriti,  6.112 prigionieri,  64 sacerdoti uccisi, 22 frati uccisi,  60 ragazzi uccisi,  50 donne uccise, 13.529 arrestati, 918 case incendiate, 6 paesi dati a fuoco, 3.000 famiglie perquisite, 12 chiese saccheggiate e 1.428 comuni sollevati. Giova ricordare che il brigantaggio non era un fenomeno post unitario, ma trovava le sue radici già nel periodo napoleonico, all’epoca di Murat e delle repressioni del colonnello francese Manhès. Seguirono, poi,  quelle di Ferdinando I, per mano del generale inglese Church, all’indomani della restaurazione e che videro la cattura, e la conseguente eliminazione, di Ciro Annichiarico, detto  Papa Ciro o Papa Ggiru, fucilato il 7 febbraio del 1817 a Francavilla d’Otranto. Chi erano veramente   Carmine Crocco, Vincenzo Petruzziello, Pasquale Romano, Michele Caruso e tantissimi altri? Patrioti o squallidi delinquenti? Senza scomodare illustri studiosi e storici, io taglio corto e dico: squallidi delinquenti che approfittando di sentimenti patriottici, miravano al potere ed all’arricchimento personale, incuranti delle migliaia di vittime, tra contadini e popolani che si lasciavano alle spalle. Questa povera  gente, da secoli asservita ai ricchi proprietari terrieri,  periva in modo esponenziale o perché amici delle truppe del generale Cialdini, e quindi trucidati dai briganti, o perché amici di Crocco e quindi massacrati da Enrico Cialdini. Vale la pena, però soffermarci un attimo su uno di questi personaggi: Carmine Crocco, detto Donatelli. Per descrivere fisicamente il Crocco, ci affidiamo allo studio del professore Pasquale Penta dell'Università di Napoli che, nelle riviste mensili di psichiatria forense (numeri 8 e 9 dell'agosto e settembre 1901), disse ciò sul brigante:

« Alto della persona 1,75 cm, robusto, svelto, con occhio indagatore, sospettoso, attento. Non vi è nel suo corpo di straordinario che la grandezza e la sporgenza dei seni frontali e delle arcate orbitali, e un cranio rispetto alla statura non molto grande (55 cm di circonferenza massima). La circonferenza toracica è di 92 cm, la persona è ancora dritta e resistente, dopo una vita agitata, piena di stenti, di sofferenze, di timori e di pericoli; è una intelligenza non ricca al certo, nè libera da superstizioni (porta il rosario al collo, amuleti), ma chiara, ordinata e sicura. Non è andato a scuola, ma nella sua vita di pastore, un po' da sé, un po' aiutato, imparò a leggere e scrivere, in tal modo da poter esprimere i suoi pensieri sulla carta e facendosi comprendere molto bene »
Carmine Crocco, detto Donatelli, nacque il 5 giugno 1830 a Rionero in Vulture. Dalla sua attività di bracciante, in brevissimo tempo divenne il capo e comandante incontrastato di un esercito che contava oltre duemila uomini. Il suo valore e la sua spregiudicatezza gli avvalsero il titolo di Generale dei briganti. Combattè, dapprima al fianco di Giuseppe Galibardi e poi contro l'esercito sabaudo ed al fianco della resistenza borbonica ed alla fine per se stesso. Le sue azioni di guerriglia e scorribande durarono per oltre quarant'anni. Nell'agosto 1862, il delegato di Pubblica Sicurezza di Rionero, Vespasiano De Luca, volle aprire una trattativa di resa con Crocco e Caruso. De Luca promise ai briganti di evitare la condanna a morte se giudicati da un tribunale civile, mentre per Crocco si prospettava il confino in un'isola stabilita dal governo sabaudo. L'esito dell'accordo si rivelò negativo. Nel marzo 1863 le sue bande (tra cui quelle di Ninco Nanco, Caruso, Caporal Teodoro, Sacchetiello e Malacarne), attaccarono un gruppo di cavalleggeri di Saluzzo, guidato dal capitano Bianchi, e 15 di loro furono picchiati ed uccisi. Crocco fu sconfitto sull'Ofanto dall'esercito e dalla Guardia Nazionale inviati dal governo regio. Nei giorno successivi tutti i paesi insorti e occupati furono riconquistati, ristabilendo l'autorità sabauda. Crocco e la sua banda vissero nei boschi sperando in un provvedimento di clemenza. La sua egemonia era ormai svanita e del suo vasto esercito ne rimase solo una manciata di uomini. Con l'arresto di Crocco, molti uomini sotto il suo comando come Caporal Teodoro, Donato "Tortora" Fortuna, Vincenzo "Totaro" Di Gianni e Michele "Il Guercio" Volonnino furono giustiziati o costretti ad arrendersi, decretando la fine del brigantaggio nel Vulture-Melfese. Carmine fu trasferito in galera a Marsiglia, poi spostato a Paliano, a Caserta, a Avellino per poi finire a Potenza. La sua fama era tale che, durante i suoi passaggi da una prigione all'altra, numerose persone accorrevano per poter vederlo di persona. Durante il processo tenuto presso la Corte d'Assise di Potenza, il Procuratore generale Camillo Borelli accusò Crocco dei seguenti reati: 62 omicidi consumati, 13 tentati omicidi, 1.200.000 lire di danni bellici e altri crimini come grassazioni ed estorsioni. Carmine Crocco venne condannato a morte l'11 settembre 1872 ma la pena fu poi commutata nei lavori forzati a vita. Venne prima assegnato al bagno penale di Santo Stefano, ove iniziò a scrivere le sue memorie il 27 marzo 1889 (raccolte in seguito nel libro "Come Divenni Brigante") e poi nel carcere di Portoferraio, in provincia di Livorno, ove passò il resto della sua vita fino al 18 giugno 1905, data della sua morte.  E qui ritorna prepotente il coinvolgimento, in positivo ed in negativo del popolo meridionale. Ecco, il popolo, quel popolo che va rivalutato, quel povero popolo che ancora una volta pagava sua misera condizione di povertà ed ignoranza. Gramsci, Salvemini, Pisacane e lo stesso Cattaneo, hanno sprecato fiumi d’inchiostro sulla non partecipazione delle masse al processo unitario. Tutto quello che è accaduto si è svolto nella quasi totale ignoranza dei contadini, i quali erano, artatamente, mossi ora dagli intellettuali del Risorgimento, ora dai brigati ed in ultimo, ma non ultimo, l’intimo convincimento che l’unità avrebbe apportato ricchezza e benessere e non già lacrime e sangue.  Il popolo del Sud, popolo di un Dio minore che fece di tutte le pene, del martoriato Meridione, un sol fardello che, ancora oggi, porta sulle spalle a guisa di soma. E non è detto che questa soma debba essere sinonimo di somaro. Ma tali ci ritengono gli “italiani”. Ma quali italiani? Quelli del regno di Sardegna, del regno sabaudo di Toscana, Emilia e Romagna? Forse quelli che Cavour diceva di voler fare? Quali? Quale coscienza etnica? Forse quella che fu enunciata  nella dichiarazione Universale dei Diritti Collettivi dei Popoli tenuta a Barcellona, il 27 maggio del 1990, nella quale si affermava che « Ogni collettività umana avente un riferimento comune ad una propria cultura e una propria tradizione storica, sviluppate su un territorio geograficamente determinato [...] costituisce un popolo. Ogni popolo ha il diritto di identificarsi in quanto tale. Ogni popolo ha il diritto ad affermarsi come nazione. »? No, questa coscienza la nostra Italia non l’ha mai avuta. Gli eccidi dei piemontesi, le scorribande di Carmine Crocco, gli studi antropologici di Cesare Lombroso (ridicola la sua perizia sul brigante Vilella), non fecero altro che alimentare odio da una parte e disprezzo dall’altra. L'antropologo e criminologo veronese ma di origini ebraiche, Marco Ezechia Lombroso detto Cesare, era assertore dela tesi dell'uomo delinquente nato o atavico. Influenzato dalla fisiognomica (disciplina pseudoscientifica che pretende di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona dal suo aspetto fisico, soprattutto dai lineamenti e dalle espressioni del volto) e da Darwin, era convinto che tutti i delinquenti presentavano caratteristiche fisiche vicine ai primati infraumani (scimmie). Sezionò e studiò molti corpi di briganti del Sud e moltissimi crani sono conservati nel museo, a lui intitolato, a Torino. Se ne deduce che per il dottor Cesare gran parte dei meridionali sarebbero stati più a loro agio nelle savane africane piuttosto che nella civilissima ed erudita pianura padana. Molti la pensavano così, infatti, il macellaio di stato, il generale Enrico Cialdini, parlando del meridione e dei suoi abitanti, così si esprimeva:
« Questa è Africa! Altro che Italia! I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono latte e miele. »

I vari governi che si succedettero provvidero, con solerzia e diligenza, al saccheggio ed all’esproprio coatto di tutte le ricchezze del defunto Regno borbonico. Basti pensare che all’indomani dell’unità, l’erario del Regno delle due Sicilie contava un saldo attivo di oltre 443 milioni, il resto d’Italia (Roma compresa) appena 225 milioni. Il nuovo governo provvide, tempestivamente, all’unificazione del debito pubblico. Riguardo a ciò, Francesco Saverio  Nitti osservò che, mentre il Regno delle Due Sicilie presentò un debito di circa 35 milioni, il Piemonte, molto più piccolo per superficie e per popolazione, sia per le spese di guerra che per gli investimenti pubblici del Cavour, ne aveva circa 61 milioni di lire, ovvero aveva un debito che, calcolato pro-capite, era circa quattro volte maggiore di quello del Regno delle Due Sicilie; inoltre, il 65% di tutta la moneta circolante in Italia era del Sud. Questa gran massa di danaro, naturalmente, sotto forma di cartolarizzazioni e nuove imposte si trasferì al nord, con conseguente impoverimento del Sud. Cosa restava a questo popolo martorizzato se non l’emigrazione verso lontani lidi? Gran parte dei giovani tra i meridionali, tra i 21 ed i 50 anni, dopo essere stati deportati al nord, vennero coscritti per lungo tempo dall’esercito piemontese, ai contadini furono negate perfino le sementi. La fame, la miseria e l’indigenza regnavano sovrane in quelle terre che erano state l’orgoglio di un Regno. Scappare, emigrare, fuggire lontano, questo era il Verbo, abbandonare la terra natia, la patria, la nazione.
Cosa intende per nazione, signor Ministro? È una massa di infelici? Piantiamo grano ma non mangiamo pane bianco. Coltiviamo la vite, ma non beviamo il vino. Alleviamo animali, ma non mangiamo carne. Ciò nonostante voi ci consigliate di non abbandonare la nostra Patria? Ma è una Patria la terra dove non si riesce a vivere del proprio lavoro? (Anonimo  del XIX sec.)
Ma, se Atene piange, Sparta non ride. Anche la città di Napoli, capitale di un Regno, culla di civiltà, teatro dell’illuminato Stupor mundi, palcoscenico di arti drammatiche, visive e musicali; terra natia di musicisti, intellettuali ed uomini di scienza. Terra nella quale si suonava il violino mentre altrove si praticava la transumanza. Le industrie del napoletano prosperavano, così come il “made in Naples”. L’alta moda era ad appannaggio dei napoletani, così come l’architettura e l’ingegneria, la tecnologia e la cantieristica. Napoli capitale delle culture divenne suburbio della coltura.
Intellighenzie somme hanno studiato la questione meridionale e le cause della sua arretratezza , ora con imparzialità ora con preconcette idee.
Giuseppe Massari e Stefano Castagnola, a capo di una commissione parlamentare istituita tra il 1862 ed il 1863 evidenziarono, come cause del brigantaggio, la povertà e l'indigenza, nonchè l'invasione piemontese fossero concause dei disordini e degli eccidi. Stefano e Leopoldo Jacini (zio e nipote) evidenziarono la necessità di creare infrastrutture e il bisogno di creare e formare una classe di picoli proprietari terrieri; Franchetti, in uno con Sonnino e Cavalieri, nel 1876 posero l'accento sull'ignoranza e la corruzione evidenziando, però, l'urgenza di una riforma agraria. Gaetano Salvemini ne attribuì le cause all'arretratezza storica; Antonio Gramsci lesse il ritardo del sud attraverso il prisma della lotta di classe. Studiò i meccanismi in corso nelle rivolte contadine dalla fine dell'Ottocento fino agli anni venti, spiegò come la classe operaia fosse stata divisa dai braccianti agricoli attraverso misure protezionistiche prese sotto il fascismo, e come lo stato avesse artificialmente inventato una classe media nel sud attraverso l'impiego pubblico. Auspicava la maturazione politica dei contadini attraverso l'abbandono della rivolta fine a se stessa per assumere una posizione rivendicativa e propositiva, e sperava una svolta più radicale da parte dei proletari urbani che dovevano includere le campagne nelle loro lotte. Giustino Fortunato effettuò vari studi in materia, e pubblicò nel 1879 il più conosciuto di essi, in cui esponeva gli svantaggi fisici e geografici del sud, i problemi legati alla proprietà della terra, e il ruolo della conquista nella nascita del brigantaggio. Era decisamente ostile ad ogni tipo di federalismo, e sebbene difendesse la necessità di redistribuire la terra e di finanziare servizi indispensabili come scuole e ospedali, fu ritenuto da alcuni interpreti pessimista per la sfiducia che mostrava nei confronti delle classi dirigenti del paese nell'affrontare la questione meridionale. Benedetto Croce rivide in chiave storiografica le vicende del Mezzogiorno dall'Unità fino al Novecento, mettendo l'accento sull'imparzialità delle fonti. Il suo pensiero divergeva parzialmente da quello del suo amico Giustino Fortunato riguardo all'importanza da attribuire alle condizioni naturali in riferimento ai problemi del Mezzogiorno. Riteneva infatti fondamentali le vicende etico-politiche che avevano condotto a quella situazione. Entrambi ritenevano fondamentale la capacità delle classi politiche ed economiche, nazionali e locali, per affrontare e risolvere la questione. La sua Storia del Regno di Napoli, del 1923, rimane il punto di riferimento essenziale per la storiografia posteriore, sia per i discepoli che per i critici. Guido Dorso rivendicò la dignità della cultura meridionale, denunciando i torti commessi dal nord ed in particolare dai partiti politici. Effettuò esaurienti studi sull'evoluzione dell'economia del Mezzogiorno dall'Unità fino agli anni trenta e difese la necessità dell'emergenza di una classe dirigente locale. Rosario Romeo si oppose alle tesi rivoluzionarie ed evidenziò le differenze esistenti, prima e dopo il Risorgimento, fra la Sicilia ed il resto del sud. Attribuì i problemi del Mezzogiorno a tratti culturali, caratterizzati dell'individualismo e lo scarso senso civico, piuttosto che a ragioni storiche o strutturali. Paolo Sylos Labini  riprese tesi che vedevano nell'assenza di sviluppo civile e culturale le origini del divario economico. Considerò la corruzione e la criminalità come endemiche della società meridionale, e vide l'assistenzialismo come principale ostacolo allo sviluppo. Ma tutte queste eccelsi storici e pensatori non alleviarono le pene degli uomini del Sud. Questi uomini, figli di una terra teatro d’incontro di culture normanne, sveve, angioine ed aragonesi, andavano al massacro,a guisa di masochistici schiavi, in terre straniere, dove venivano disprezzati ed evitati come le peggiori bestie, come reietti indegni di esistere. Questo marchio indelebile è ancora tatuato sulla nostra pelle, così come avvenne un secolo dopo con la martoriata popolazione ebraica. Arbeit macht frei, questo era l’ironico messaggio che accoglieva  i deportati nei campi di concentramento nazisti durante la seconda guerra mondiale ed è ancora questo vogliono incidere, col fuoco, sulla pelle della stragrande maggioranza delle popolazioni del Sud. Quelle popolazioni che col sudore del lavoro ripagano il sangue del Figlio. Uomini che, in nome di una patria che non li vuole, anzi peggio li detesta, si sono immolati alla libertà ed alla terra. Camorra, Ndrangheta, Sacra corona unita, Mafia, sono figli di uno Stato assente, anzi mai esistito. Per decenni hanno chiuso gli occhi, hanno fatto finta di non vedere. Faceva loro comodo. Ma, l’erba cattiva attecchisce velocemente, non ha bisogno né di concime né di acqua, si autoalimenta, prospera e le sue propaggini si sono estese sulle terre floride dell’inesistente padania. Ora brucia, anche se è foriera d’ulteriore ricchezza per i figli del signore di Giussano. I luoghi comuni assurgono a ruolo di dogma; sud, meridionalismo e napoletano hanno conquistato il Guinnes dei sinonimi negativi. E’ triste, ma è così. Quindi, a dispetto del conte Camillo, l’Italia sarà pure stata fatta, ma gli italiani no e, di questo passo, non si formeranno mai. Ed allora? Ok, se siamo indesiderati ospiti, andiamo via. Si, andiamo via ma restituiteci il mal tolto. Cogliamo l’occasione dei 150 anni di falsa unità per stilare un bilancio socio-economico che dia a Cesare quel che è di Cesare, dopodiché tornate pure alla transumanza, bestemmiatori dal rutto libero, adoratori di un Dio inesistente al quale ogni anno santificate ridicole ampolle d’acqua; millantatori e creatori di una terra che non esiste, voi che praticate ostracismo e disprezzo verso le genti meridionali. Voi indegni che, dopo aver prosciugato la vostra fonte di ricchezza, pretendete di cambiarne il nome da Eldorado in Postribolo.  

venerdì 10 febbraio 2012

Revisionismo corretto



Tore 'e Criscienzo
Prendo spunto da un'intervista televisiva fatta al signor Eduardo De Crescenzo (in arte Eddy Napoli), autore di un brano musicale dal titolo "Malaunità, dove l'artista afferma che prima dell'Unità, nel sud non c'erano Camorra, mafia etc. Innanzitutto non si può affermare che Mafia e camorra non esistevano. Per i pochi è una bestemmia, per i più un'eresia. Si vada a leggere la copiosa produzione storico - letteraria sulla camorra preunitaria, e ci si sorprenderà. Napoli tutta era una camorra, i poveracci, i borghesi e le forze dell'ordine pascevano e si moltiplicavano con il latte di mamma camorra. La camorra opprimeva i miseri e banchettava con i signorotti. Sarebbe bastato consultare il Grande Dizionario Italiano dell'Uso (GRADIT) per leggere che la camorra è la: "prima, organizzazione criminale di stampo mafioso, costituitasi con leggi e codici propri già durante il '600.".Altre fonti storiche gli avrebbero rivelato che, intorno al 1650, tale Cesare Riccardi, maestro di breviario e di Coltello, in arte "Abate Cesare", dopo un primo omicidio si diede all'assassinio sistematico, alle tangenti, rapine e sequestri. Attività, quest'ultime, precipue della camorra. In tempi più recenti, sotto il dominio di Ferdinando II, Alessandro Avitabile impiegato alla Questura di Napoli, patriota e fecondo scrittore, nella sua opera "Carlo il discolo" dipinge un quadro a tinte forti della camorra nelle carceri borboniche. Nel 1830 imperava a Napoli Michele Aitollo, detto "Michele 'a nubiltà". Nel 1840 lo scettro passò a Aniello Ausiello capintrito della paranza di Porta Capuana. Il 12 settembre 1842, nella chiesa di Santa Caterina a Formiello, il contajuolo Francesco Scorticelli diede lettura di un frieno (contenente regole e gerarchie della camorra) composto da 26 articoli. Nel 1849 esordì il Re della camorra, Tore 'e Criscienzo. Il Lacenaire dei camorristi. Omicidi, sequestri, rapine, furti e tangenti erano il suo pane quotidiano. Guai ad opporvisi, si metteva in pericolo la propria vita. Tore fu colui che, in uno con Marianna De Crescenzo, detta la Sangiovannara, e tre prostitute, <<Rosa 'a pazza >>, <<Luisella 'a luma 'ggiorno >> e <<Nannarella 'e quatte rane >> entrò in Napoli al seguito di Garibaldi per garantirne l'incolumità. Quest'ultimo episodio nacque con la regia di Liborio Romano che affidò nelle mani dei più feroci camorristi l'ordine pubblico della città, nominandoli dirigenti di Polizia. Nell'elenco, redatto da Nicola Amore, dei camorristi napoletani preunitari, troviamo Vincenzo Zincone, Vincenzo Attingenti, Luigi Mazzola, Antonio Mormile, Pasquale Scarpati etc., tutti operanti in Napoli prima del 1861.

Carmine Crocco
Altra doverosa annotazione va fatta sul discorso dei briganti e del brigantaggio.
Il brigantaggio non nasce con l'invasione piemontese, il brigantaggio nel Regno di Napoli risale a Papa Ciro (Ciro Annichiarico, nato a Grottaglie, il 16 dicembre 1775 e morto a Francavilla Fontana, l'8 febbraio 1817). Re Ferdinando I nel 1816 emanò un decreto "per lo sterminio dei briganti che infestavano Calabria, Molise, Basilicata e Capitanata, conferendo speciali poteri ai vertici dell'esercito." Nel 1817 nel Cilento la banda dei Fratelli Capozzoli iniziò le sue scorribande, che proseguirono fino al 1828, quando costoro si unirono ai Filadelfi durante i Moti del Cilento, la dura repressione ad opera di Del Carretto stroncò la rivolta, i Capozzoli furono catturati l'anno seguente, giustiziati a Salerno e loro teste mozzate portate in mostra nei paesi circostanti. Nell'immediato periodo preunitario, nel Regno delle due Sicilie, tra gli altri operavano Carmine Crocco, Ninco Nanco, Giuseppe Caruso e il cerretese Cosimo Giordano. Gran ladroni, assassini e grassatori. Carmine Crocco, detto "il Donatello", era quello stesso personaggio che entrò in Napoli al fianco di Giuseppe Garibaldi, dopo aver partecipato alla battaglia del Volturno nei mesi di settembre ed ottobre 1860 e che dopo la delusione dovuta alle mancate promesse fattegli, passò dalla parte di Francesco II, nelle fila della resistenza borbonica. Per 3 anni, Carmine Crocco e sodali ricoprirono il ruolo di ultimo baluardo all'invasione piemontese. F.S. Nitti, nei suoi "Scritti sulla questione meridionale" ci dice che:
" Per le plebi meridionali il brigante fu assai spesso il vendicatore e il benefattore: qualche volta fu la giustizia stessa. Le rivolte dei briganti, coscienti o incoscienti, nel maggior numero dei casi ebbero il carattere di vere e selvagge rivolte proletarie. Ciò spiega quello che ad altri e a me e accaduto tante volte di constatare; il popolo delle campagne meridionali non conosce assai spesso nemmeno i nomi dei fondatori dell'unità italiana, ma ricorda con ammirazione i nomi dell'abate Cesare e di Angelo Duca e dei loro più recenti imitatori. "
In tutto questo non va dimenticato il vero eroe, il martire di quella che potremmo definire la prima guerra civile italiana: il popolo inerme. Questo popolo rurale, affamato dai nobili borbonici e dai grandi proprietari terrieri preunitari, asserviti (ma per loro non cambiava nulla) al nuovo sovrano sardo, veniva trucidato dai piemontesi perché proteggevano i briganti e, in alcuni casi, trucidati dai briganti perché ospitavano i piemontesi, i quali li avrebbero massacrati se fosse stata negata loro l'ospitalità richiesta. Insomma per questa gente, per questa povera gente, non c'era pace tra gli ulivi. Ancora gridano vendetta i martiri di Casalduni, Campolattaro e Pontelandolfo, rase al suolo e bruciate, gli abitanti (quelli che non riuscirono a fuggire) massacrati e le donne prima violentate e poi uccise in modo barbaro. Non si possono dimenticare Maria Ciaburri, Maria Izzo e Concetta Biondi.
Tutto questo perché se si vuole fare del revisionismo, questo deve essere asettico, non di parte, altrimenti si cade nello stesso errore di chi ha scritto e imposto la sua visione della storia. Da questa operazione va tenuto fuori dalla porta quel cancro che si chiama demagogia. Pur essendo io stesso un meridionalista convinto, non mi lascio attrarre dalle sirene secessioniste, di quelle che invocano il ritorno al passato o che, provocatoriamente, chiedono il rimborso di quanto depredato nel 1861. Il mio modo di essere meridionalista è quello di tendere ad un riscatto del meridione, un ripudio dell'assistenzialismo nel quale ci hanno, scientemente, cullato e ad una rivalutazione delle nostre potenzialità. Discorsi e manifesti non hanno mai fatto bene a nessuno. Iniziamo (e su questo sono d'accordo col signor De Crescenzo) col prendere coscienza di noi stessi e cambiare il nostro modo di porci di fronte alle sfide che ogni giorno dobbiamo affrontare. Questa è la vera rivoluzione che porterà al riscatto ed alla rivalutazione del meridione.

Revisionismo al contrario



Dukla, piccolo comune del distretto di Krosno nel Voivodato in Polonia. Ai più non dice nulla. In questo piccolo comune rurale, il 4 ottobre del 1898 nacque tale Jan Liwacz. Anche questo, ai soliti più,  dice poco o nulla. Allora, vediamo di essere più precisi. Arbeit macht frei , cioè  "Il lavoro rende liberi”. Questo dovrebbe dire molto di più. Infatti, la scritta "Arbeit macht frei" che sovrasta la cancellata d'ingresso del Campo di concentramento di Auschwitz, fu realizzata dall'internato Jan Liwacz, un fabbro detenuto nel campo di concentramento di Auschwitz. Jan fu arrestato il 16 ottobre 1939 a Bukowsko e  rinchiuso ad Auschwitz il 20 giugno 1940, col numero di campo 1010.  Se, anziché nascere a Dukla fosse nato a Napoli o nel relativo Regno, avrebbe scritto: “Laßt alle Hoffnung, die ihr eingeht”, cioè “Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate”. Ma non ad Auschwitz, bensì a Fenestrelle, un comune italiano in provincia di Torino. A Fenestrelle o Fenestrele in piemontese, ma anche Finistrelas in lingua occitana, a circa 2000 metri d’altezza esiste una fortezza, al cui ingresso è scritto: "OGNUNO VALE NON IN QUANTO E' MA IN QUANTO PRODUCE".
“Uno dei più straordinari edifizi che possa aver mai immaginato un pittore di paesaggi fantastici: una sorta di gradinata titanica, come una cascata enorme di muraglie a scaglioni, un ammasso gigantesco e triste di costruzioni, che offriva non so che aspetto misto di sacro e di barbarico, come una necropoli guerresca o una rocca mostruosa, innalzata per arrestare un'invasione di popoli, o per contener col terrore milioni di ribelli. Una cosa strana, grande, bella davvero. Era la fortezza di Fenestrelle”.
Così scriveva il De Amicis, ed ancora,
“Sempre par di sentire ruggire di sotto le batterie, o di veder tra le casematte rimbalzar le granate degli assedianti sollevando tempeste di schegge, e soldati boccheggiar per le scale, e giù nella valle, e poi fianchi del monte, saltar in aria cassoni d'artiglieria, e masse di truppa sbaragliarsi urlando per i boschi, sparsi d'affusti stritolati e di membra umane» «Guardiano immobile e supremo della nostra indipendenza e del nostro onore”.

Onore, onore, onore, questa parola riecheggia nella nostra mente, nei nostri ricordi, nei ricordi dei figli del sud, dei figli del Regno delle Due Sicilie. Accade, però, che i liberatori, scopertisi occupanti, non ci stanno e contrappongono ad un revisionismo corretto e fatto di documenti e dichiarazioni ufficiali, fantomatiche fonti e deliranti sensazioni. Uno per tutti il prof. Alessandro Barbero, piemontese di Torino e prof. di storia  medievale, sempre a Torino. In base a documenti che, pare, nessuno abbia visto, incorona Tommaso Aniello d’Amalfi alias Masaniello, il progenitore dei camorristi e l’inventore del pizzo. Qualcuno dirà che quella di Masaniello e del cognato Maso Carrese, il  7 luglio 1647, fu una rivolta contro l’aumento delle e gabelle sulla frutta (nutrimento dei poveri)  voluto dal vicerè  Rodrigo Ponce de León  duca d'Arcos. Checché, la rivolta va inquadrata, secondo il Barbero, nel fatto che più tasse significavano meno soldi nelle tasche dei cittadini e, quindi, meno pizzo da estorcere. Il professor Barbero raggiunge l’apoteosi allorquando lascia trasparire che a Napoli, nel XIV secolo, esisteva ladrocinio e meretricio. Caro Barbero, hai forse dimenticato Francia ed Inghilterra? Ti sono, per caso, sfuggiti i lupanari dell’Impero romano? Poi, a giustificare i tratti di camorrista di Masaniello, l’erudito storico piemontese, chiama in causa Bernardina Pisa, moglie del pescivendolo d’Amalfi. Bernardina si prostituisce, così come la mamma di Masaniello che, quindi, è un volgare camorrista. Solo che Barbero, volutamente dimentica di dire che la Pisa si prostituisce dopo la morte di suo marito avvenuta il 16 luglio del 1647. Comunque si capisce bene che il docente di storia doveva dire quel che gli era stato ordinato dai revisionisti al contrario. Non contento, il Barbero, cerca di affondare la lama nel corpo straziato del meridione. Egli afferma che gente leale ad un giuramento (e per questo colpevole e degna d’essere rinchiusa nel Lager di Fenestrelle) nel loro periodo di prigionia erano dediti al gioco d’azzardo e pagavano il pizzo a loro connazionali leali e traditori allo stesso tempo. Una domanda, a questo punto, sorge spontanea: con quali soldi? Chi forniva loro denaro? Forse qualche parente del Barbero? Ma il Barbero ha i documenti e forse anche le ricevute… Noi, invece, abbiamo documenti reali, che vi proponiamo allo scopo di dimostrare quali erano le effettive condizioni degli oltre 40.000 tra ufficiali, soldati e civili, di età compresa tra i 22 ed i 32 anni che non vollero giurare fedeltà ad un altro re.
Francesco Proto Carafa, duca di Maddaloni (deputato alla camera dal 1861)
Ma che dico di un governo che strappa dal seno delle famiglie tanti vecchi generali, tanti onorati ufficiali solo per il sospetto che nutrissero amore per il loro Re sventurato, e rilegagli a vivere nelle fortezze di Alessandria ed in altre inospitali terre del Piemonte…Sono essi trattati peggio che i galeotti. Perché il governo piemontese abbia a spiegar loro tanto lusso di crudeltà? Perché abbia a torturare con la fame e con l'inerzia e la prigione uomini nati in Italia come noi?
 Generale La Marmora:
"… i prigionieri napoletani dimostrano un pessimo spirito. Su 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsentono a prendere servizio. Sono tutti coperti di rogna e di verminia…e quel che è più dimostrano avversione a prendere da noi servizio. Jeri a taluni che con arroganza pretendevano aver il diritto di andare a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a Francesco Secondo, gli rinfacciai altamente che per il loro Re erano scappati, e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavano a servire, che erano un branco di car…che avessimo trovato modo di metterli alla ragione".
Rivista Civiltà Cattolica:
 "Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad un espediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane ed acqua ed una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e d'altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimare di fame e di stento per le ghiacciaie".
Revanscismo? Rigurgiti di nazionalismo? Niente di tutto questo, semplicemente l’affermazione di una verità scomoda che è, continuamente, stravolta da prezzolati tendenti a perpetrare un eccidio fisico e morale iniziato e mai finito. Ogni popolo, ogni uomo, ha diritto alla sua dignità e non può vedersela scippare ad ogni piè spinto. Milioni di napoletani, trucidati dai “liberatori” piemontesi, vagano nel limbo di un’invocata verità. Restituiamo a questi uomini il loro onore e la loro lealtà a quel giuramento fatto in forma solenne  e che ha impegnato le loro coscienze. Facciamolo in nome di un revisionismo non al contrario ma rispondente alla realtà dei fatti.

Dr. Alessandro Pellino