martedì 27 novembre 2012

Utopia o ultima spiaggia?



I social Network, i blog, i forum, insomma la rete tutta, sono strumenti che ci consentono d'interagire tra di noi. Si può parlare di tutto e di tutti. Si scrivono o si riportano frasi, aforismi e poesie, si postano foto e pensieri. Senza nulla togliere all’autonomia di ogni internauta, vorrei esprimere una mia personalissima opinione. Il popolo italiano, senza distinzione territoriale e di appartenenza politica, è sottoposto in questi anni ad una macelleria sociale senza precedenti. Imposte, tasse, crisi economica, disoccupazione, mancanza di prospettive per i giovani, grama vecchiaia per gli anziani, welfare latitante, strangolano in un abbraccio mortale l’Italia che lavora e quella che non ha lavoro. La nostra nazione viaggia a 2 velocità. Quella alta e spregiudicata, senza remore, umiltà e vergogna e che siede alla ricca tavola del potere e delle aule consiliari (Camere, regione, Province e Comuni). Gente che governa per il consenso e gente che cerca il consenso per governare. Ricchi e superpagati, depositari di verità ai più sconosciuti. Gente che fa incetta di privilegi, prebende, poltrone e che inanella una serie infinita d’incarichi super pagati. Corrotti e collusi. Dall’altra parte ci sono milioni di persone indigenti e pensionati che non superano i 500 € mensili, dipendenti oberati da tasse e balzelli, giovani senza futuro, intere comunità sotto il controllo dell’illegalità e mi fermo qui per non essere monotono e stancante. I nostri governanti hanno gioco facile su di noi. Tutto il male che combinano è accettato da noi con una rassegnazione che rasenta l’incoscienza. Con masochismo disarmante li teniamo sul nostro libro paga e consentiamo loro ogni abuso e prepotenza. A questo punto non saprei più distinguere tra colpevoli ed innocenti, tra vittime e carnefici. La rete, ritorniamo a bomba. Questo miracolo tecnologico ci consente di interagire anche a grandi distanze. Ma, se io dico la mia, tu la tua e loro la loro, allora saremo gocce di rugiada sparse al vento. Se abbiamo una sola voce, una sola volontà allora saremo mare in tempesta. Assistiamo a scene surreali per un paese in crisi come il nostro. Mentre i tecnici al governo hanno la loro bocca concentrata sul fiero pasto, i politici litigano e dissertano sulle primarie e sul come organizzarle e vincere, oltre che guadagnarci 4€ per ogni incosciente che si presta alla pochade. Allora? Allora orientamento e sana indignazione. Focalizziamo la nostra attenzione su pochi e qualificanti punti: WELFARE e PRIVILEGI. In rete parliamo solo di questo: WELFARE e PRIVILEGI.
·         Tetti pensionistici con limiti e senza cumulabilità da 1.000 a 5.000 €
·         Sanità gratuita per tutti i redditi familiari inferiori a 2.000 €
·         Abolizione IMU prima casa e case locate (solo privati)
·         Estensione IMU a Partiti politici, Chiesa e Banche
·         Abolizione di ogni privilegio di tutti i politici (camere, regioni, province, comuni ed Enti locali) a qualsiasi titolo
·         Abolizione, sic et simpliciter, di tutte le Province per decreto
Utopia di un’indignazione o ultima spiaggia? 

giovedì 15 novembre 2012

I CIMITERI NAPOLETANI


I cimiteri di Napoli: le 366 fosse


Prima del 1762, a Napoli,  le salme dei defunti venivano sepolte in grandi fosse fuori dalle mura di cinta della città, mentre reali e nobili trovavano la loro ultima dimora nelle chiese delle città. Dalla seconda metà del XVII secolo, quando a Napoli imperversava la peste, i morti trovavano riposo nell’ospedale degli Incurabili di Napoli, fortemente voluto da Maria Lorenza Longo. I corpi di quegli sventurati venivano gettati in una fossa sotto il complesso ospedaliero detta <<Piscina>>. Questo, però, rendeva l’aria di quel sito alquanto malsana, per cui si cercò una soluzione al problema. La Real Santa Casa degli Incurabili pensò di costruire un cimitero ad uso della stessa. Si raccolsero circa 14370 ducati, di cui 4500 donati da Ferdinando IV, 9300 dai Banchi pubblici e 570 da altri donatori, purtroppo non bastavano e l’ospedale vi aggiunse la differenza di 26130 ducati. Nel 1762 l’architetto Ferdinando Fuga, su commissione di Ferdinando IV, costruì quello che potrebbe definirsi il primo cimitero napoletano,

<<AFFINCHE’ LA CITTA’ IMMENSA E MOLTO POPOLOSA NON FOSSE DANNEGGIATA DALL’AMMASSO DI CADAVERI CHE CONTIENE E QUINDI DALL’ASPIRAZIONE TOSSICA>>.

L’edificio è posto alla fine di due ripide rampe e vi si accede tramite una grande porta ad arco. Ai lati della porta vi sono due epigrafi del Mazzocchi; a destra dell’uscio vi è scritto il motivo per cui è stato costruito ed anche le misure dello spazio occupato, che sono di <<PEDES CCXXXVIII. IN AGRUM PEDES CCLIX>>, cioè: 238 e 259 piedi (70,45 e 76,66 metri) e la data del 21 settembre del 1762; a sinistra i nomi di coloro che ordinarono la costruzione, dell’architetto ed un invito alla pietà ed alla preghiera:

<<DIC BONA VERBA ET ANIMIS PIE IN DOMO SANCAT VITA FUNCTORUM PRO TUA PIETATE BONA ET SANCTA PRECARE.>> 

Originariamente l’ingresso era un portico ad archi con a destra una cappella decorata con un dipinto ad olio di Antonio Pellegrino ed a sinistra l’Officina. Il chiostro interno e di trecentodieci palmi (80,6 metri) per lato e nel quadrato si trovano 360 fosse di questo cimitero che sono profonde 7 metri, larghe 4,20 e coperte da grandi lastre di pietra vesuviana di circa 80 cm. per lato. Le restanti 6 fosse erano all’interno del vestibolo. Attualmente le fosse sono 365, in quanto una è stata fagocitata dall’ampliamento della cappella posta alla destra dell’entrata, nella quale si trovano 3 ossari. Quindi, una per ogni giorno dell’anno più una per gli anni bisestili (corrispondente alla n. 60 e che andava usata solo in tali anni). La struttura è statica ed interrata ed è composta da 19 gallerie, parallele al corpo di fabbrica dell’ingresso, con una volta a botte a tutto sesto. Il primo gennaio di ogni anno era scoperta una fossa, nella quale erano depositati i morti di quel giorno, la sera la si chiudeva ed il giorno dopo si apriva la seguente. La disposizione delle fosse è di 19 file per 19 fosse ognuna, escluso la decima fila che ne contiene 18, poiché non esiste quella centrale (punto d’intersezione degli assi di simmetria), al posto della quale è collocato un lampione a gas ed il tombino dello smaltimento delle acque piovane. La numerazione va da sinistra a destra dal numero 1 al 19, nella seconda fila si va dal 20 al 38, ma da destra a sinistra e si procede così fino alla fossa numero 360. All’inizio del nuovo anno si ripartiva dalla fossa numero uno e si ripetevano le operazioni di cui sopra.

Nel 1871 vi fu un ampliamento di questo cimitero che mortificò la matematica concezione del Fuga. Accadde che, su proposta dell’arciconfraternita di Santa Maria del popolo, furono soppresse le sepolture nelle fosse da 361 a 366 (dal 26 al 31 dicembre) per cui non si rispettò più la cronologia. Le salme, fino al 1875, erano gettate dall’alto del piazzale e, questo, costituiva l’ultima ed ennesima offesa alla vita del povero defunto. Nel 1875, però,  una nobildonna che aveva perso la figliola, non volendo che questa subisse l’umiliazione di essere gettata a mo’ di rifiuto, fece costruire e donò, una macchina funebre capace di calare all’alto le salme.    Tale macchinario era composto da un argano con una cassa di ferro col fondo apribile, in modo che il corpo fosse calato sul fondo e rilasciato tramite una molla che apriva il fondo della cassa. Quest’argano è ancora visibile all’interno del chiostro, sia pure molto danneggiato e corroso dal tempo. Il cimitero del Tredici, comunemente detto delle 366 fosse, restò in servizio fino al 1890, raccogliendo oltre due milioni e mezzo di corpi. Attualmente non riceve più defunti e riversa in uno stato fatiscente e bisognoso di restauro. Ultima cosa, i guardiani di questo cimitero, dal 1762 ad oggi, appartengono alla stessa famiglia. Il nome di questo cimitero si trasformò in TREDICI. Il nome <<Tredici>> si deve ad una stortura della pronuncia di Lautrec. Odet de Foix, conte de Lautrec e de Comminges, maresciallo di Francia (1511), conte di Foix, di Rethel e di Beaufort, signore d'Orval, di Chaource, di Marais, Isles e Villemur (1485 - 15 agosto 1528). Figlio di Jean de Foix, visconte di Lautrec e Villemur, governatore del Delfinato, e di Jeanne d'Aydie de Lescun; cavaliere di Saint Michel, fu  governatore della Guienna. Il Lautrec fu un prode guerriero, ma più che altro è ricordato per la sua inflessibilità e crudeltà, come un sanguinario. La strada della sua carriera fu spianata dalla sorella Françoise, la contessa di Châteaubriant, favorita di Francesco I di Francia. Finì che andò per suonare ma fu suonato, ecco come. Nell’estate del 1558, inviato da Francesco I contro Carlo V, Lautrec giunse a Napoli ed in breve tempo la cinse d’assedio. Il condottiero non si aspettava, dalla città, una resistenza indomita, per cui gli assalti risultavano vani. Fu quello il momento in cui, il francese, ebbe l’idea fulminante. Affamerò la città, pensò, anzi meglio, l’asseterò. Così fece distruggere dai suoi le condutture dell’acquedotto detto <<Della bolla>> che alimentava la città. Abbiamo però detto che si era in estate, per questo motivo, il caldo ed il terreno paludoso, in uno con le acque che dalle condutture si riversavano nei terreni circostanti, diedero vita ad una dilagante pestilenza, che in breve tempo uccise le truppe francesi ed il loro comandante Lautrec. Le spoglie mortali dell’esercito e del francese furono ricoverate in una grotta di quel luogo detta grotta dello sportiglione. In ricordo di questo fatto, i napoletani, nomarono quel luogo Lotrecco o lotrevice che poi nel tempo cambiò in tredici. 

mercoledì 14 novembre 2012

Unità d'’Italia: mistificazione di un'invasione



Dopo la disfatta di Gaeta, conclusasi il 14 febbraio 1861 alle otto di mattina, cominciarono gli arresti e le deportazioni dei soldati borbonici e dei civili fedeli a Francesco II di Borbone, esiliato prima a Roma, poi a Parigi ed infine ad Arco, in Trentino, dove morì il 27 dicembre del 1894. Migliaia di uomini furono messi ai ferri e stipati in navi verso Genova. Molti di loro percorsero il tragitto a piedi fino alla città ligure, dove furono smistati nei vari campi di concentramento. Oltre al forte di Fenestrelle se ne allestirono ad Alessandria, nel forte di S. Benigno a Genova, Milano, Bergamo, S. Maurizio Canavese, a Savona nel forte di Priamar, a Parma, Modena e Bologna. Il generale Enrico Cialdini, modenese di nascita, fu nominato coordinatore della custodia dei deportati meridionali, e ne fu l’esecutore materiale su mandato del governo piemontese. Il vero martirio lo subirono gli oltre 40.000 deportati a Fenestrelle. Il regno sabaudo dopo l’unione d’Italia, nell’VIII legislatura, guidata dal bolognese Marco Minghetti, in data 15 agosto  1863 promulgò la legge nº 1409, “Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette, VIII legislatura, Regno d'Italia”, meglio conosciuta come Legge Pica, dal nome del suo estensore, l’aquilano Giuseppe Pica. Questa legge si articola su cinque articoli fondamentali, che di seguito sono enunciati.
1° Fino al 31 dicembre nelle provincie infestate dal brigantaggio, e che tali saranno dichiarate con decreto reale, i componenti comitiva, o banda armata composta almeno di tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche strade o le campagne per commettere crimini o delitti, ed i loro complici, saranno giudicati dai tribunali militari;
2° I colpevoli del reato di brigantaggio, i quali armata mano oppongono resistenza alla forza pubblica, saranno puniti con la fucilazione;
3° Sarà accordata a coloro che si sono già costituiti, o si costituiranno volontariamente nel termine di un mese dalla pubblicazione della presente legge, la diminuzione da uno a tre gradi di pena;
4° Il Governo avrà inoltre facoltà di assegnare, per un tempo non maggiore di un anno, un domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi, alle persone sospette, secondo la designazione del Codice penale, e ai manutengoli e camorristi;
5° In aumento dell'articolo 95 del bilancio approvato nel 1863 è aperto al Ministero dell'interno il credito di un milione di lire per sopperire alle spese di repressione del brigantaggio.
A questo punto resta da stabilire chi era connotato come brigante dal governo centrale neo costituito dell’epoca. Il cavillo della questione si può individuare al 4° articolo della legge, dove anche chi si macchiava del “delitto” di vagabondaggio (il vagabondaggio era consuetudine, vista la situazione in cui era stato ridotto il meridione dopo l’unione d’Italia) o addirittura chi era ozioso (sempre per la stessa ragione, molti erano costretti a oziare per la mancanza di occupazione) veniva inviato al domicilio coatto.
Panorama della fortezza di Fenestrelle.
Mette conto, a questo punto, dare vita ad una piccola digressione per soffermarci sul Forte di Fenestrelle. La fortezza di Fenestrelle è la più grande struttura fortificata d’Europa, tanto enorme da essere chiamata “la grande muraglia piemontese”.  Un’opera faraonica, voluta da Vittorio Amedeo II per difendere il Piemonte dagli attacchi dei francesi, la costruzione del forte ebbe inizio nel 1728 e fu terminata nel 1850, dopo oltre 122.  La sua estensione va dalla sommità della montagna per concludersi, in pratica, a fondo valle, nel 1850. Posta a più di 2.000 metri d’altezza e composta da tre forti:  San Carlo, Tre Denti e delle Valli. Queste costruzioni  sono unite da 2 scale. La prima, composta da 4.000 gradini, è interamente coperta e scavata in galleria artificiale. La seconda, detta “scala reale” è interamente all’aperto ed è composta da 2.550 gradini e lunga 2 chilometri, voluta da Carlo Emanuele III. La Scala Reale sale per circa 3 chilometri lungo il fianco della montagna in val Chisone, con un dislivello di 635 metri e copre un’area di 1.300.000 metri quadri. Insistono a Fenestrelle vasche per la calce viva, una di queste è posta alle spalle della chiesa del forte, seminascosta e fuori dai percorsi che generalmente si fanno compiere ai turisti in visita. Vasche testimoni di inaudite sofferenze patite dai soldati borbonici. Questi uomini, figli di una terra teatro d’incontro di culture normanne, sveve, angioine ed aragonesi, andavano al massacro, a guisa di masochistici schiavi, in terre straniere dove venivano disprezzati ed evitati come le peggiori bestie, come reietti indegni di esistere. Questo marchio indelebile è ancora tatuato sulla nostra pelle, così come avvenne un secolo dopo con la martoriata popolazione ebraica. Arbeit macht frei ( il lavoro rende liberi), questo era l’ironico messaggio che accoglieva  i deportati nei campi di concentramento nazisti durante la seconda guerra mondiale, mentre i fascisti scrissero a Fenestrelle: “Ognuno vale non in quanto è ma in quanto produce”. In questi luoghi, ostici quanto mai per le genti meridionali a causa del freddo e di com’erano tenuti in prigionia dall’esercito piemontese, gli uomini erano trattati come bestie e privanti  anche degli stracci che indossavano per fare in modo che soffrissero ancora di più il clima rigido invernale. Non andava meglio nelle sere d’estate, quando l’aria risultava pungente per l’altitudine e penetrava in celle di detenzione private delle finestre. Ai prigionieri, privati del cibo e della pur minima assistenza medica, fu riservato un triste e tragico destino: morirono in circa 40.000. Generalmente, in quelle condizioni disumane, non riuscivano a sopravvivere più di tre mesi e quello che non poté la privazione lo fecero le famigerate vasche di calce viva, dove furono sciolti i morti e i corpi ancora vivi dei sopravvissuti. La carneficina non durò un breve lasso di tempo, ma si protrasse per anni; dall’archivio storico del ministero degli esteri sono stati ritrovati carteggi di una richiesta del 1869, da parte del governo italiano per l’acquisto di un’isola argentina per relegarvi i soldati napoletani, all’epoca ancora detenuti, il che, lascia intendere, il loro numero fosse ancora rilevante. Fine digressione.
Piantina della fortezza di Fenestrelle in Val Chisone. TO
Intanto, all’indomani della unificazione coatta, oltre 72.000 meridionali iscritti nelle liste di leva del regno borbonico e in seguito nel neonato regno d’Italia, vennero chiamati a prestare il sevizio militare. Fu un vero fallimento, su 72.000, solo 20.000 risposero alla chiamata alle armi gli altri si diedero alla macchia, per cui furono dichiarati “briganti” e perseguiti a norma della legge del regno sabaudo e in seguito anche per la legge del regno d’Italia, solo perché fedeli al Re borbonico ed a cui avevano prestato giuramento. Alla luce di quanto su esposto viene naturale chiedersi: era proprio necessario questo massacro di inaudite proporzioni? L’esercito borbonico era ormai disciolto ed inesistente. Il Re Francesco II era in esilio e senza alcuna speranza di ritorno. Quei pochi briganti sopravvissuti allo stermino erano in prigione. Le popolazioni rurali avevano visto esaurito ogni loro sentimento di restaurazione. Le forze economiche del meridione erano solo un ricordo dei tempi passati. Tutto era compiuto, perché infierire? Genocidio premeditato? O semplicemente barbarie? In questi giorni, infuria la polemica su quanto siano veritieri questi fatti storici, supportati da prove tangibili e di ricostruzioni storiche certosine e laboriose a causa dell’occultamento di molte prove, come atti ufficiali e libri risalenti ai fatti scritti in epoche pre-repubblicani. Quanto più fatti e voci si levano per affermare una verità dolosamente occultata, tanto più viene messa in dubbio e tacciata sotto la definizione di: invenzione storiografica e mediatica, relegata in un angolo buio dal nuovo revisionismo storico, sempre più aggressivo. Si può dire, senza timore di smentita, che il governo sabaudo fu precursore del delitto contro l’umanità che fu la deportazione, la detenzione e l’eccidio di tante persone innocenti e della sua copertura alle generazioni future, avvenuto all’alba della nascita dell’Italia. Nessuna nascita di un paese civile dovrebbe poggiare la base sul sangue innocente scorso a fiumi e su l’occultamento scientifico di un periodo storico inumano, facendo in modo che questi non lasci traccia e senza che se ne faccia menzione su alcun testo storico.
Targa commemorativa dei deportati caduti,posta nella piazza d'arme del forte.


venerdì 2 novembre 2012

Scuola pittorica di Posillipo


"Castel dell'Ovo dalla spiaggia" Anton Sminck van Pitloo.
"isola del liri" Raffaele Carelli.
"Sorrento" Giacinto Gigante.
Gabriele Smargiassi.
Nel 1820 nasceva a Napoli la scuola pittorica di Posillipo che, ancora oggi, identifica una corrente pittorica ricca di esponenti e con una collocazione precisa nell'arte mondiale. La storia identifica un genere inconfondibile, per disegno e colorazione, con il filone pittorico detto: "Scuola di Posillipo". L'archetipo dell'appellativo non nasce dalla scuola bensì da esponenti di questo genere di pittura come Antonio Pitloo, Giacinto Gigante, gli allievi Vincenzo Franceschini, Teodoro Duclère, Gabriele Smargiassi, nonché intere famiglie come quella dei Gigante con Giacinto, Achille, Ercole ed Emilia, quella dei  Fergola e quella dei Carelli, capeggiata dal capostipite Raffaele e dai figli Gabriele, Consalvo e Achille. La scuola di pittura di Posillipo, nasce dal vento del neoclassicismo che spira sulla penisola forte e impetuoso. Gli esponenti della corrente classica dell'epoca, usano l'appellativo “Posillipo” come dispregiativo. Essi, abituati alle opere classiche, non vedono di buon occhio quel concentrato di anticonformismo che è il genere pittorico di Posillipo. Lo ritengono un'accozzaglia di linee fuori prospettiva, macchie non delineate, imprecisioni e canoni prospettici fuori dalla logica dell'epoca. Dileggiano e bandiscono quella nuova ventata artistica che si fa strada dalla città partenopea. Finisce, invece, che quei piccoli capolavori fatti su supporti come carta,  cartone e talvolta su tavole rozze riciclate, pian-piano si affermano,  diventando diretta integrazione con la cultura napoletana presso l'aristocrazia e la corte. Quei paesaggi di una Campania fiorente e bucolica, talvolta sormontata da quel gigante non sempre addormentato del Vesuvio, rende la vita facile ai vari pittori, che non riescono a smaltire le committenze ricevute. Richieste di opere vengono anche dal fiorente movimento turistico che invade la Campania dell'epoca. I turisti s'innamorano del genere giudicandolo viva espressione di una cultura emergente e foriera di nuovi movimenti. Gli artisti non si accontentano di vendere il loro prodotto, di grande qualità. Essi cercano sbocchi diversi a quella loro arte nata dalla visione quasi onirica della terra che li ospita. Lo fanno cercando punti di collegamento con la pittura francese, con quella inglese o  viaggiando verso l'oriente al fine di sviluppare nuovi temi per le loro opere aumentando, di fatto, la loro presenza nelle mostre ed esposizioni in terra straniera. A quel punto, l’arte napoletana, prima in Italia, abbandona definitivamente i canoni del tardo-barocco e del classico caravaggesco introducendo l'accostamento verso la pittura "en plein air" (all'aria aperta). La scuola di Posillipo mutuando, anche,  l'influenza della pittura europea che arriva dai Costable, dai Turner, da Monet e dagli impressionisti francesi, fa risaltare quella luce, quei colori solari e quegli effetti cromatici che già allora erano "il marchio di fabbrica" della pittura napoletana,  "vestendo con quegli indumenti" i paesaggi più classici della pittura partenopea.

Bruno Carminio.