mercoledì 15 febbraio 2012

Il mio Carmine Crocco


Carmine Crocco

Carmine Crocco, detto Donatello o Donatelli, nasce il 6 giugno del 1830 a Rionero in Vulture, un comune in provincia di Potenza in Basilicata. Secondogenito di cinque figli (tre fratelli: Donato, Antonio e Marco; una sorella: Rosina), figlio di Francesco e Maria Gerarda Santomauro. La sua è una famiglia rurale, dignitosa ma povera. Traumatizzato dall’aggressione subita dalla madre, porterà in se in se i segni permanenti di questo triste evento. Il padre in carcere per un tentato omicidio mai commesso e la madre in manicomio, segnata dagli eventi infausti che coinvolgono la sua famiglia, Carmine vive un’adolescenza tribolata e segnata da un destino ineluttabile. Tralasciando la cronaca della sua vita adolescenziale arriviamo fino al 1849, quando Crocco viene chiamato alle armi nell’esercito borbonico di Ferdinando II delle due Sicilie. Il suo carattere risoluto e la sua indole lo portano a ricoprire, ben presto, il grado di caporale. Carmine ha 18 anni ma già porta i segni di una schiavitù morale e fisica. Nulla può e nulla ha potuto contro lo strapotere dei signorotti e nobili. In quell’epoca vigeva una politica che ruotava intorno alla titolarità ed all’esercizio di attribuire, tramite sanzioni (fisiche e morali, esercitate o minacciate) effetti vincolanti a disposizioni unilaterali su “who gets what (chi prende cosa)”. Carmine non prendeva, Carmine era la cosa. Il Nostro ne è vittima e ne subisce i devastanti effetti. Carmine Crocco deve sottostare a questo triste destino, portarne il fardello senza poter reagire, quindi riversa nella sua azione militare quella rabbia che un destino inclemente ha seminato nel suo cuore. Suo malgrado, Carmine porta in se un sentimento, più che legittimo, di riscatto morale sociale ma a metà 800 questo rappresentava una colpa, un sovvertire dell’ordine costituito. Carmine era colpevole ancor prima di commettere i suoi reati. Aveva ucciso ancor prima d’estrarre il suo coltello e le sue pallottole avevano colpito quando le aveva acquisite. Vittima o carnefice? Garibaldino o borbonico? Semplicemente un uomo teso al suo riscatto ma che, sulla sua strada trova un selciato fatto di false promesse ed illusioni. Togliete ad un uomo la dignità, la speranza, l’onore e le aspirazioni e ne avrete fatto un cane sciolto e rabbioso. A Carmine Crocco è stato tolto tutto. Hanno voluto un cane ed un cane hanno avuto. Brigante, soldato borbonico, garibaldino e poi restauratore, è forse un camaleonte? No, è un disperato, un deluso, turlupinato, schernito e messo nell’angolo. Tutti sanno cosa accade ad un  animale messo nell’angolo, lo si rende aggressivo e spietato. Così l’hanno voluto e così l’hanno avuto. Carmine è un cane addomesticato e poi inselvatichito dagli eventi e dagli uomini. “Che diritto ha un mio simile di uccidere impunemente un mio fratello e farla franca? Perché paga mia madre e mio padre per i suoi misfatti?”  Sono questi i tarli che rodono impietosamente la mente di Carmeniello. Sono impietosi. Cesare Lombroso potrà misurare il cranio del Crocco ma non riuscirà mai a decifrarne le frequenze ed i pensieri, ormai metastasi della sua esistenza. Un uomo braccato non può certo fare l’amanuense, un uomo braccato deve sopravvivere. Questo fa Carmine, cerca di sopravvivere. Per una serie di sfortunati eventi ma anche per motivi d’onore, valore intimamente rilevante nella sua vita, Crocco compie il suo primo delitto e, per sottrarsi all’arresto, diserta. Raggiunta la sua Rionero, sempre in nome dell’onore, rimette mano al suo coltello ed uccide ancora. La vittima è un tale Peppino Carli che aveva cercato di insidiare la sorella Rosina. Mette conto, però, precisare che molte delle notizie pervenuteci sulla vita di Crocco non sono verificabili né attendibili, ma poco importa se don Peppino viene accoltellato per onore o altro. Fatto è che con quell’episodio e con la diserzione, dall’agricoltore, allevatore ed ex caporale, nasce il “brigante” Crocco. Carmine, però, ha una sola cosa in mente. Una è la parola che gli rimbalza nella mente, come una scheggia impazzita: libertà. Ogni suo neurone è teso alla ricerca di una soluzione del suo problema: come fare per essere un uomo libero. Ci crede ma sbaglia. Si fida ma è deluso. Per il suo carattere focoso commette dei delitti, ma cerca l’espiazione. La cerca con Garibaldi, ma le carte del nizzardo sono fasulle. Le promesse dei liberali sono assimilabili a quelle dei più spregiudicati uomini di mare. Francesco II gli tende la mano, lo invoca. Carmine si presta in cambio della remissione dei suoi peccati. Arriva Borjes, ma il suo è un comportamento da sette carati. Crocco capisce tutto e comprende il suo destino. Ora Carmine è un brigante, un delinquente, assassino, criminale, farabutto e soggetto lombrosiano. Certamente, ma perché? Era di famiglia onesta ed è stato spinto al delitto. Gran soldato ma non compreso. Liberale ma deluso e perseguitato. Condannato a morte nel 1872, ma questa volta riceve l’ultimo fasullo favore. Il II governo Minghetti non vuole martiri e tramuta la condanna a morte in carcere a vita. Carmine Crocco non è Giuseppe Villella, Lombroso non avrà la sua testa. L’agricoltore, allevatore e caporale, voluto brigante, muore nel carcere di  Portoferraio il 18 giugno del 1905.

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