Carmine Crocco |
Carmine
Crocco, detto Donatello o Donatelli, nasce il 6 giugno del 1830 a Rionero in
Vulture, un comune in provincia di Potenza in Basilicata. Secondogenito di
cinque figli (tre fratelli: Donato, Antonio e Marco; una sorella: Rosina),
figlio di Francesco e Maria Gerarda Santomauro. La sua è una famiglia rurale,
dignitosa ma povera. Traumatizzato dall’aggressione subita dalla madre, porterà
in se in se i segni permanenti di questo triste evento. Il padre in carcere per
un tentato omicidio mai commesso e la madre in manicomio, segnata dagli eventi
infausti che coinvolgono la sua famiglia, Carmine vive un’adolescenza tribolata
e segnata da un destino ineluttabile. Tralasciando la cronaca della sua vita adolescenziale
arriviamo fino al 1849, quando Crocco viene chiamato alle armi nell’esercito
borbonico di Ferdinando II delle due Sicilie. Il suo carattere risoluto e la
sua indole lo portano a ricoprire, ben presto, il grado di caporale. Carmine ha
18 anni ma già porta i segni di una schiavitù morale e fisica. Nulla può e
nulla ha potuto contro lo strapotere dei signorotti e nobili. In quell’epoca
vigeva una politica che ruotava intorno alla titolarità ed all’esercizio di
attribuire, tramite sanzioni (fisiche e morali, esercitate o minacciate)
effetti vincolanti a disposizioni unilaterali su “who gets what (chi prende
cosa)”. Carmine non prendeva, Carmine era la cosa. Il Nostro ne è vittima e ne
subisce i devastanti effetti. Carmine Crocco deve sottostare a questo triste
destino, portarne il fardello senza poter reagire, quindi riversa nella sua
azione militare quella rabbia che un destino inclemente ha seminato nel suo
cuore. Suo malgrado, Carmine porta in se un sentimento, più che legittimo, di
riscatto morale sociale ma a metà 800 questo rappresentava una colpa, un
sovvertire dell’ordine costituito. Carmine era colpevole ancor prima di
commettere i suoi reati. Aveva ucciso ancor prima d’estrarre il suo coltello e
le sue pallottole avevano colpito quando le aveva acquisite. Vittima o
carnefice? Garibaldino o borbonico? Semplicemente un uomo teso al suo riscatto
ma che, sulla sua strada trova un selciato fatto di false promesse ed
illusioni. Togliete ad un uomo la dignità, la speranza, l’onore e le aspirazioni
e ne avrete fatto un cane sciolto e rabbioso. A Carmine Crocco è stato tolto
tutto. Hanno voluto un cane ed un cane hanno avuto. Brigante, soldato
borbonico, garibaldino e poi restauratore, è forse un camaleonte? No, è un
disperato, un deluso, turlupinato, schernito e messo nell’angolo. Tutti sanno
cosa accade ad un animale messo
nell’angolo, lo si rende aggressivo e spietato. Così l’hanno voluto e così
l’hanno avuto. Carmine è un cane addomesticato e poi inselvatichito dagli
eventi e dagli uomini. “Che diritto ha un mio simile di uccidere impunemente un
mio fratello e farla franca? Perché paga mia madre e mio padre per i suoi
misfatti?” Sono questi i tarli che
rodono impietosamente la mente di Carmeniello. Sono impietosi. Cesare Lombroso
potrà misurare il cranio del Crocco ma non riuscirà mai a decifrarne le
frequenze ed i pensieri, ormai metastasi della sua esistenza. Un uomo braccato
non può certo fare l’amanuense, un uomo braccato deve sopravvivere. Questo fa
Carmine, cerca di sopravvivere. Per una serie di sfortunati eventi ma anche per
motivi d’onore, valore intimamente rilevante nella sua vita, Crocco compie il
suo primo delitto e, per sottrarsi all’arresto, diserta. Raggiunta la sua
Rionero, sempre in nome dell’onore, rimette mano al suo coltello ed uccide
ancora. La vittima è un tale Peppino Carli che aveva cercato di insidiare la
sorella Rosina. Mette conto, però, precisare che molte delle notizie
pervenuteci sulla vita di Crocco non sono verificabili né attendibili, ma poco
importa se don Peppino viene accoltellato per onore o altro. Fatto è che con
quell’episodio e con la diserzione, dall’agricoltore, allevatore ed ex
caporale, nasce il “brigante” Crocco. Carmine, però, ha una sola cosa in mente.
Una è la parola che gli rimbalza nella mente, come una scheggia impazzita:
libertà. Ogni suo neurone è teso alla ricerca di una soluzione del suo
problema: come fare per essere un uomo libero. Ci crede ma sbaglia. Si fida ma
è deluso. Per il suo carattere focoso commette dei delitti, ma cerca l’espiazione.
La cerca con Garibaldi, ma le carte del nizzardo sono fasulle. Le promesse dei
liberali sono assimilabili a quelle dei più spregiudicati uomini di mare.
Francesco II gli tende la mano, lo invoca. Carmine si presta in cambio della
remissione dei suoi peccati. Arriva Borjes, ma il suo è un comportamento da
sette carati. Crocco capisce tutto e comprende il suo destino. Ora Carmine è un
brigante, un delinquente, assassino, criminale, farabutto e soggetto
lombrosiano. Certamente, ma perché? Era di famiglia onesta ed è stato spinto al
delitto. Gran soldato ma non compreso. Liberale ma deluso e perseguitato.
Condannato a morte nel 1872, ma questa volta riceve l’ultimo fasullo favore. Il
II governo Minghetti non vuole martiri e tramuta la condanna a morte in carcere
a vita. Carmine Crocco non è Giuseppe Villella, Lombroso non avrà la sua testa.
L’agricoltore, allevatore e caporale, voluto brigante, muore nel carcere di Portoferraio il 18 giugno del 1905.
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