Il
5 maggio del 1860, un’accozzaglia di 1162 straccioni, al comando di Giuseppe
Garibaldi, che Cavour aveva coinvolto al
solo scopo di disfarsene, s’imbarca,
senza munizioni né polvere da sparo, sui
vapori Piemonte e Lombardo alla volta di Marsala, dove sbarcano l’11 di maggio.
All’alba di questo infausto giorno, sarebbero bastate due “palle” di cannone e,
noi non saremmo qui a discutere, mentre i Savoia avrebbero “pianto” i 1089
straccioni in rosso (se ne erano persi alcuni strada facendo). Mercé i
tradimenti e le inettitudini dell’esercito borbonico e dei suoi ufficiali,
senza tirarla per le lunghe, il futuro eroe dei due mondi, il giorno 7
settembre 1861 fa il suo “trionfale” ingresso in Napoli. Mette conto, vista la
solennità dell’evento, lasciare la parola a ben più erudite e geniali menti:
Era
la sera del 27 giugno del 1860, Don Liborio mi fece uscire dal gabbio e mi
disse: - Tore, fra giorni qui a Napoli arriverà Giuseppe Galibardo, deve
trovare una città pulita ed ordinata. Io vi metto a libertà e vi nomino
responsabile della pubblica sicurezza. Voi dovete ripulire la città dai
delinquenti. Ve la sentite? - Io risposi di si, mi misi una coccarda tricolore
sul cappello e cominciai il mio nuovo lavoro. Con Iossa, Capuano e Mele facemmo
piazza pulita. Facemmo fuori, a pugnalate, Peppe Aversano, quello era un
fetentone, un infame spia del direttore della polizia Michele Ajossa, si
meritava quello e pure altro. Quindi ce facettemo all' ispettore della Polizia Perrelli.
Veramente non fui io, ma Ferdinando Mele che gli tirò qualche coltellate mentre
l'ispettore si trovava semi svenuto su una carretta. Infine, facemmo 'na bella
mazziata all' ispettore Cioffi, che a stento salvò la pelle. La cosa più bella,
però, fu la mazziata che si buscò l'ambasciatore
francese, un certo Anatole Brenier. Neh, quello si atteggiò pure: sono
l'ambasciatore francese. Ah, si e tiè. Due colpi di bastone in testa e la
mmommora si aprì in due parti. Se non
era per Ciccio Carfora, 'o cucchiere, che lo portò in salvo, faceva 'na brutta
fine. Poi conquistammo tutti i commissariati e la gente ci dava tanti soldi, ci
pagava. Ci dovevano pagare, se no significava che erano nemici della patria
italiana, quindi mazzate e poi in galera. Il 7 settembre di quell'anno, zi' Peppe
entrò in Napoli, me lo ricordo come se fosse adesso, erano più o meno l'una. Ci
fu una carovana di carrozze. Il corteo era guidato da Michele <<’o
chiazziere>>, che era uno che ritirava le tangenti dagli ambulanti della
piazza e da <<o schiavuttiello>>.
Galibardo stava sulla prima carrozza con Demetrio Salazaro, il frate
francescano Giovanni Pantaleo, Agostino Bertani e il conte Giuseppe Ricciardi;
sulla seconda c'eravamo io, il commissario Iossa, Capuano e Mele; sulla terza
mia cugina Marianna, detta 'a Sangiuvannara, tutta agghindata come un albero di
Natale, … e poi c’erano <<Rosa ‘a
pazza >>, <<Luisella ‘a luma ‘ggiorno >> e <<Nannarella
‘e quatte rane >> . Si può dire che abbiamo tenuto a battesimo l'Italia,
o no?.
Questo
eccezionale cronista era “nientepopodimenoche” Salvatore De Crescenzo, detto
Tore ‘e Criscienzo, il più grande e sanguinario camorrista dell’epoca, che un
governo frettoloso ed irresponsabile aveva posto, quale responsabile, nei palazzi della Pubblica Sicurezza di
Napoli. Fautore di cotante scelte fu
tale Liborio Romano da Patù. Il suo curriculum: nel 1820 destituito
dall'insegnamento di Diritto Civile e Commerciale all'Università Federico
II; sempre nel 1820 in esilio
all'estero; nel 1848 tornò a Napoli e lottò per la concessione della
costituzione da parte del re Ferdinando II di Borbone; poi arrestato e
rispedito al confino; nel 1860 venne nominato dal re Francesco II prefetto di
Polizia; nel luglio dello stesso anno venne nominato ministro di polizia ma,
nel frattempo, era anche collaboratore
di Cavour; nel 1861 ministro degli interni nel provvisorio regno di Napoli
perché aveva dato aiuto a Garibaldi e,
quindi, il suo contributo allo sterminio di migliaia di cittadini napoletani;
fu deputato del Regno d'Italia dal 1861 al 1865. Quando si dice la coerenza!
Purtroppo,
però, per il nostro Tore, a Napoli arrivò Silvio Spaventa e per la camorra
furono giorni duri che culminarono in uno sciopero generale dei camorristi,
esattamente il 26 aprile del 1861. A Silvio Spaventa subentrò Filippo De
Blasio, un avvocato di Guardia Sanframondi. Divenne anche direttore del
ministero degli interni di Cialdini. Sotto Farini era già stato prefetto di
polizia. Già il governo Farini - Minghetti aveva dichiarato guerra aperta alla
camorra e, tramite Aveta, furono arrestati più di trecento camorristi. Sulla
base di questi arresti, il generale La Marmora, scrisse una lettera al governo,
nella quale sollecitava l'adozione di misure speciali per combattere la piaga
della camorra. Tra le altre cose, chiedeva la creazione di carceri speciali e
possibilmente lontano dalla città, in Sardegna. Precedendo, in questo, di oltre
un secolo la norma del 41 bis. Un anno dopo, il 15 agosto del 1863 fu approvata
la legge Pica. Di fatto, con i nove articoli di questa legge, venne introdotto
il criterio del sospetto ed il libero arbitrio, in base al quale bastava una
semplice delazione, semmai dovuta a rancori personali, per provocare un
arresto. Infatti la legge, all'articolo 5, così recitava
<<Il
Governo avrà inoltre la facoltà di assegnare per un tempo non maggiore di un
anno un domicilio coatto agli oziosi, ai vagabodi, alle persone sospette,
secondo la designazione del Codice penale, non che ai camorristi, e sospetti
manutengoli, dietro parere di Giunta composta dal Prefetto del Tribunale, del
Procuratore del Re e di due consiglieri provinciali.>>
Comunque,
nel gennaio del 1861 l’Italia, parafrasando Cavouri, era “fatta”. Ma era stata
cosa buona e giusta? Garibaldi così si confida, in una sua lettera ad Adelaide Cairoli, nel 1868:
"Gli
oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono
convinto di non aver fatto male, nonostante ciò, non rifarei oggi la via
dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà
cagionato solo squallore e suscitato solo odio".
Ne’l libro “L’ordine nuovo” di Antonio
Gramsci, del 1920, si legge che : « Lo Stato italiano è stato una dittatura
feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole,
squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori
salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti.» Potremmo
liquidarla così. Ma non sarebbe giusto. La cosa è un tantino più complessa. Non
voglio elencare qui le lodi o le infamie che, tanti storici, si sono scomodati
a tessere ora a favore dell’uno, ora dell’altro schieramento. Briganti contro
piemontesi e viceversa. Dov’è la tragedia? La tragedia è nel mezzo. Il popolo
del Sud. Gli agricoltori, i coloni, i piccoli artigiani ed i diseredati. Ecco
la tragedia. Un popolo che era incudine del martello piemontese se aiutava i
briganti e incudine del martello dei briganti se aiutava i piemontesi. Ecco il
bollettino di guerra:
8.964 fucilati, 10.604 feriti, 6.112 prigionieri, 64 sacerdoti uccisi, 22 frati uccisi, 60 ragazzi uccisi, 50 donne uccise, 13.529 arrestati, 918 case incendiate, 6 paesi dati a fuoco, 3.000 famiglie perquisite, 12 chiese saccheggiate e 1.428 comuni sollevati. Giova ricordare che il brigantaggio non era un fenomeno post unitario, ma trovava le sue radici già nel periodo napoleonico, all’epoca di Murat e delle repressioni del colonnello francese Manhès. Seguirono, poi, quelle di Ferdinando I, per mano del generale inglese Church, all’indomani della restaurazione e che videro la cattura, e la conseguente eliminazione, di Ciro Annichiarico, detto Papa Ciro o Papa Ggiru, fucilato il 7 febbraio del 1817 a Francavilla d’Otranto. Chi erano veramente Carmine Crocco, Vincenzo Petruzziello, Pasquale Romano, Michele Caruso e tantissimi altri? Patrioti o squallidi delinquenti? Senza scomodare illustri studiosi e storici, io taglio corto e dico: squallidi delinquenti che approfittando di sentimenti patriottici, miravano al potere ed all’arricchimento personale, incuranti delle migliaia di vittime, tra contadini e popolani che si lasciavano alle spalle. Questa povera gente, da secoli asservita ai ricchi proprietari terrieri, periva in modo esponenziale o perché amici delle truppe del generale Cialdini, e quindi trucidati dai briganti, o perché amici di Crocco e quindi massacrati da Enrico Cialdini. Vale la pena, però soffermarci un attimo su uno di questi personaggi: Carmine Crocco, detto Donatelli. Per descrivere fisicamente il Crocco, ci affidiamo allo studio del professore Pasquale Penta dell'Università di Napoli che, nelle riviste mensili di psichiatria forense (numeri 8 e 9 dell'agosto e settembre 1901), disse ciò sul brigante:
8.964 fucilati, 10.604 feriti, 6.112 prigionieri, 64 sacerdoti uccisi, 22 frati uccisi, 60 ragazzi uccisi, 50 donne uccise, 13.529 arrestati, 918 case incendiate, 6 paesi dati a fuoco, 3.000 famiglie perquisite, 12 chiese saccheggiate e 1.428 comuni sollevati. Giova ricordare che il brigantaggio non era un fenomeno post unitario, ma trovava le sue radici già nel periodo napoleonico, all’epoca di Murat e delle repressioni del colonnello francese Manhès. Seguirono, poi, quelle di Ferdinando I, per mano del generale inglese Church, all’indomani della restaurazione e che videro la cattura, e la conseguente eliminazione, di Ciro Annichiarico, detto Papa Ciro o Papa Ggiru, fucilato il 7 febbraio del 1817 a Francavilla d’Otranto. Chi erano veramente Carmine Crocco, Vincenzo Petruzziello, Pasquale Romano, Michele Caruso e tantissimi altri? Patrioti o squallidi delinquenti? Senza scomodare illustri studiosi e storici, io taglio corto e dico: squallidi delinquenti che approfittando di sentimenti patriottici, miravano al potere ed all’arricchimento personale, incuranti delle migliaia di vittime, tra contadini e popolani che si lasciavano alle spalle. Questa povera gente, da secoli asservita ai ricchi proprietari terrieri, periva in modo esponenziale o perché amici delle truppe del generale Cialdini, e quindi trucidati dai briganti, o perché amici di Crocco e quindi massacrati da Enrico Cialdini. Vale la pena, però soffermarci un attimo su uno di questi personaggi: Carmine Crocco, detto Donatelli. Per descrivere fisicamente il Crocco, ci affidiamo allo studio del professore Pasquale Penta dell'Università di Napoli che, nelle riviste mensili di psichiatria forense (numeri 8 e 9 dell'agosto e settembre 1901), disse ciò sul brigante:
« Alto della persona 1,75 cm, robusto,
svelto, con occhio indagatore, sospettoso, attento. Non vi è nel suo corpo di
straordinario che la grandezza e la sporgenza dei seni frontali e delle arcate
orbitali, e un cranio rispetto alla statura non molto grande (55 cm di
circonferenza massima). La circonferenza toracica è di 92 cm, la persona è
ancora dritta e resistente, dopo una vita agitata, piena di stenti, di
sofferenze, di timori e di pericoli; è una intelligenza non ricca al certo, nè
libera da superstizioni (porta il rosario al collo, amuleti), ma chiara,
ordinata e sicura. Non è andato a scuola, ma nella sua vita di pastore, un po'
da sé, un po' aiutato, imparò a leggere e scrivere, in tal modo da poter
esprimere i suoi pensieri sulla carta e facendosi comprendere molto bene »
Carmine Crocco, detto Donatelli,
nacque il 5 giugno 1830 a Rionero in Vulture. Dalla sua attività di bracciante,
in brevissimo tempo divenne il capo e comandante incontrastato di un esercito
che contava oltre duemila uomini. Il suo valore e la sua spregiudicatezza gli
avvalsero il titolo di Generale dei briganti. Combattè, dapprima al fianco di
Giuseppe Galibardi e poi contro l'esercito sabaudo ed al fianco della
resistenza borbonica ed alla fine per se stesso. Le sue azioni di guerriglia e
scorribande durarono per oltre quarant'anni. Nell'agosto 1862, il delegato di
Pubblica Sicurezza di Rionero, Vespasiano De Luca, volle aprire una trattativa
di resa con Crocco e Caruso. De Luca promise ai briganti di evitare la condanna
a morte se giudicati da un tribunale civile, mentre per Crocco si prospettava
il confino in un'isola stabilita dal governo sabaudo. L'esito dell'accordo si
rivelò negativo. Nel marzo 1863 le sue bande (tra cui quelle di Ninco Nanco,
Caruso, Caporal Teodoro, Sacchetiello e Malacarne), attaccarono un gruppo di
cavalleggeri di Saluzzo, guidato dal capitano Bianchi, e 15 di loro furono picchiati
ed uccisi. Crocco fu sconfitto sull'Ofanto dall'esercito e dalla Guardia
Nazionale inviati dal governo regio. Nei giorno successivi tutti i paesi
insorti e occupati furono riconquistati, ristabilendo l'autorità sabauda.
Crocco e la sua banda vissero nei boschi sperando in un provvedimento di
clemenza. La sua egemonia era ormai svanita e del suo vasto esercito ne rimase
solo una manciata di uomini. Con l'arresto di Crocco, molti uomini sotto il suo
comando come Caporal Teodoro, Donato "Tortora" Fortuna, Vincenzo
"Totaro" Di Gianni e Michele "Il Guercio" Volonnino furono
giustiziati o costretti ad arrendersi, decretando la fine del brigantaggio nel
Vulture-Melfese. Carmine fu trasferito in galera a Marsiglia, poi spostato a
Paliano, a Caserta, a Avellino per poi finire a Potenza. La sua fama era tale
che, durante i suoi passaggi da una prigione all'altra, numerose persone
accorrevano per poter vederlo di persona. Durante il processo tenuto presso la
Corte d'Assise di Potenza, il Procuratore generale Camillo Borelli accusò
Crocco dei seguenti reati: 62 omicidi consumati, 13 tentati omicidi, 1.200.000
lire di danni bellici e altri crimini come grassazioni ed estorsioni. Carmine
Crocco venne condannato a morte l'11 settembre 1872 ma la pena fu poi commutata
nei lavori forzati a vita. Venne prima assegnato al bagno penale di Santo
Stefano, ove iniziò a scrivere le sue memorie il 27 marzo 1889 (raccolte in
seguito nel libro "Come Divenni Brigante") e poi nel carcere di
Portoferraio, in provincia di Livorno, ove passò il resto della sua vita fino
al 18 giugno 1905, data della sua morte.
E qui ritorna prepotente il coinvolgimento, in positivo ed in negativo
del popolo meridionale. Ecco, il popolo, quel popolo che va rivalutato, quel
povero popolo che ancora una volta pagava sua misera condizione di povertà ed
ignoranza. Gramsci, Salvemini, Pisacane e lo stesso Cattaneo, hanno sprecato
fiumi d’inchiostro sulla non partecipazione delle masse al processo unitario.
Tutto quello che è accaduto si è svolto nella quasi totale ignoranza dei
contadini, i quali erano, artatamente, mossi ora dagli intellettuali del
Risorgimento, ora dai brigati ed in ultimo, ma non ultimo, l’intimo
convincimento che l’unità avrebbe apportato ricchezza e benessere e non già
lacrime e sangue. Il popolo del Sud,
popolo di un Dio minore che fece di tutte le pene, del martoriato Meridione, un
sol fardello che, ancora oggi, porta sulle spalle a guisa di soma. E non è
detto che questa soma debba essere sinonimo di somaro. Ma tali ci ritengono gli
“italiani”. Ma quali italiani? Quelli del regno di Sardegna, del regno sabaudo
di Toscana, Emilia e Romagna? Forse quelli che Cavour diceva di voler fare? Quali?
Quale coscienza etnica? Forse quella che fu enunciata nella dichiarazione Universale dei Diritti
Collettivi dei Popoli tenuta a Barcellona, il 27 maggio del 1990, nella quale
si affermava che « Ogni collettività
umana avente un riferimento comune ad una propria cultura e una propria
tradizione storica, sviluppate su un territorio geograficamente determinato
[...] costituisce un popolo. Ogni popolo ha il diritto di identificarsi in
quanto tale. Ogni popolo ha il diritto ad affermarsi come nazione. »? No,
questa coscienza la nostra Italia non l’ha mai avuta. Gli eccidi dei
piemontesi, le scorribande di Carmine Crocco, gli studi antropologici di Cesare
Lombroso (ridicola la sua perizia sul brigante Vilella), non fecero altro che alimentare odio
da una parte e disprezzo dall’altra. L'antropologo
e criminologo veronese ma di origini ebraiche, Marco Ezechia Lombroso detto
Cesare, era assertore dela tesi dell'uomo delinquente nato o atavico.
Influenzato dalla fisiognomica (disciplina pseudoscientifica che pretende di
dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona dal suo aspetto fisico,
soprattutto dai lineamenti e dalle espressioni del volto) e da Darwin, era
convinto che tutti i delinquenti presentavano caratteristiche fisiche vicine ai
primati infraumani (scimmie). Sezionò e studiò molti corpi di briganti del Sud
e moltissimi crani sono conservati nel museo, a lui intitolato, a Torino. Se ne
deduce che per il dottor Cesare gran parte dei meridionali sarebbero stati più
a loro agio nelle savane africane piuttosto che nella civilissima ed erudita
pianura padana. Molti la pensavano così, infatti, il macellaio di stato, il
generale Enrico Cialdini, parlando del meridione e dei suoi abitanti, così si
esprimeva:
« Questa è Africa! Altro che Italia! I
beduini, a riscontro di questi cafoni, sono latte e miele. »
I
vari governi che si succedettero provvidero, con solerzia e diligenza, al
saccheggio ed all’esproprio coatto di tutte le ricchezze del defunto Regno
borbonico. Basti pensare che all’indomani dell’unità, l’erario del Regno delle
due Sicilie contava un saldo attivo di oltre 443 milioni, il resto d’Italia
(Roma compresa) appena 225 milioni. Il nuovo governo provvide, tempestivamente,
all’unificazione del debito pubblico. Riguardo
a ciò, Francesco Saverio Nitti osservò che, mentre il Regno delle Due
Sicilie presentò un debito di circa 35 milioni, il Piemonte, molto più piccolo
per superficie e per popolazione, sia per le spese di guerra che per gli
investimenti pubblici del Cavour, ne aveva circa 61 milioni di lire, ovvero
aveva un debito che, calcolato pro-capite, era circa quattro volte maggiore di
quello del Regno delle Due Sicilie; inoltre, il 65% di tutta la moneta
circolante in Italia era del Sud. Questa gran massa di danaro,
naturalmente, sotto forma di cartolarizzazioni e nuove imposte si trasferì al
nord, con conseguente impoverimento del Sud. Cosa restava a questo popolo
martorizzato se non l’emigrazione verso lontani lidi? Gran parte dei giovani tra
i meridionali, tra i 21 ed i 50 anni, dopo essere stati deportati al nord,
vennero coscritti per lungo tempo dall’esercito piemontese, ai contadini furono
negate perfino le sementi. La fame, la miseria e l’indigenza regnavano sovrane
in quelle terre che erano state l’orgoglio di un Regno. Scappare, emigrare,
fuggire lontano, questo era il Verbo, abbandonare la terra natia, la patria, la
nazione.
Cosa intende per nazione, signor
Ministro? È una massa di infelici? Piantiamo grano ma non mangiamo pane bianco.
Coltiviamo la vite, ma non beviamo il vino. Alleviamo animali, ma non mangiamo
carne. Ciò nonostante voi ci consigliate di non abbandonare la nostra Patria?
Ma è una Patria la terra dove non si riesce a vivere del proprio lavoro?
(Anonimo del XIX sec.)
Ma, se Atene piange, Sparta non ride.
Anche la città di Napoli, capitale di un Regno, culla di civiltà, teatro
dell’illuminato Stupor mundi, palcoscenico di arti drammatiche, visive e
musicali; terra natia di musicisti, intellettuali ed uomini di scienza. Terra
nella quale si suonava il violino mentre altrove si praticava la transumanza.
Le industrie del napoletano prosperavano, così come il “made in Naples”. L’alta
moda era ad appannaggio dei napoletani, così come l’architettura e
l’ingegneria, la tecnologia e la cantieristica. Napoli capitale delle culture
divenne suburbio della coltura.
Intellighenzie somme hanno studiato la questione meridionale e le cause della sua arretratezza , ora con imparzialità ora con preconcette idee.
Intellighenzie somme hanno studiato la questione meridionale e le cause della sua arretratezza , ora con imparzialità ora con preconcette idee.
Giuseppe Massari e Stefano Castagnola,
a capo di una commissione parlamentare istituita tra il 1862 ed il 1863
evidenziarono, come cause del brigantaggio, la povertà e l'indigenza, nonchè
l'invasione piemontese fossero concause dei disordini e degli eccidi. Stefano e
Leopoldo Jacini (zio e nipote) evidenziarono la necessità di creare
infrastrutture e il bisogno di creare e formare una classe di picoli
proprietari terrieri; Franchetti, in uno con Sonnino e Cavalieri, nel 1876
posero l'accento sull'ignoranza e la corruzione evidenziando, però, l'urgenza
di una riforma agraria. Gaetano Salvemini ne attribuì le cause all'arretratezza
storica; Antonio Gramsci lesse il ritardo del sud attraverso il prisma della
lotta di classe. Studiò i meccanismi in corso nelle rivolte contadine dalla
fine dell'Ottocento fino agli anni venti, spiegò come la classe operaia fosse
stata divisa dai braccianti agricoli attraverso misure protezionistiche prese
sotto il fascismo, e come lo stato avesse artificialmente inventato una classe
media nel sud attraverso l'impiego pubblico. Auspicava la maturazione politica
dei contadini attraverso l'abbandono della rivolta fine a se stessa per
assumere una posizione rivendicativa e propositiva, e sperava una svolta più
radicale da parte dei proletari urbani che dovevano includere le campagne nelle
loro lotte. Giustino Fortunato effettuò vari studi in materia, e pubblicò nel
1879 il più conosciuto di essi, in cui esponeva gli svantaggi fisici e
geografici del sud, i problemi legati alla proprietà della terra, e il ruolo
della conquista nella nascita del brigantaggio. Era decisamente ostile ad ogni
tipo di federalismo, e sebbene difendesse la necessità di redistribuire la
terra e di finanziare servizi indispensabili come scuole e ospedali, fu
ritenuto da alcuni interpreti pessimista per la sfiducia che mostrava nei
confronti delle classi dirigenti del paese nell'affrontare la questione
meridionale. Benedetto Croce rivide in chiave storiografica le vicende del
Mezzogiorno dall'Unità fino al Novecento, mettendo l'accento sull'imparzialità
delle fonti. Il suo pensiero divergeva parzialmente da quello del suo amico
Giustino Fortunato riguardo all'importanza da attribuire alle condizioni
naturali in riferimento ai problemi del Mezzogiorno. Riteneva infatti
fondamentali le vicende etico-politiche che avevano condotto a quella
situazione. Entrambi ritenevano fondamentale la capacità delle classi politiche
ed economiche, nazionali e locali, per affrontare e risolvere la questione. La
sua Storia del Regno di Napoli, del 1923, rimane il punto di riferimento
essenziale per la storiografia posteriore, sia per i discepoli che per i
critici. Guido Dorso rivendicò la dignità della cultura meridionale,
denunciando i torti commessi dal nord ed in particolare dai partiti politici.
Effettuò esaurienti studi sull'evoluzione dell'economia del Mezzogiorno
dall'Unità fino agli anni trenta e difese la necessità dell'emergenza di una
classe dirigente locale. Rosario Romeo si oppose alle tesi rivoluzionarie ed
evidenziò le differenze esistenti, prima e dopo il Risorgimento, fra la Sicilia
ed il resto del sud. Attribuì i problemi del Mezzogiorno a tratti culturali,
caratterizzati dell'individualismo e lo scarso senso civico, piuttosto che a
ragioni storiche o strutturali. Paolo Sylos Labini riprese tesi che vedevano nell'assenza di
sviluppo civile e culturale le origini del divario economico. Considerò la corruzione
e la criminalità come endemiche della società meridionale, e vide
l'assistenzialismo come principale ostacolo allo sviluppo. Ma tutte queste
eccelsi storici e pensatori non alleviarono le pene degli uomini del Sud. Questi
uomini, figli di una terra teatro d’incontro di culture normanne, sveve,
angioine ed aragonesi, andavano al massacro,a guisa di masochistici schiavi, in
terre straniere, dove venivano disprezzati ed evitati come le peggiori bestie,
come reietti indegni di esistere. Questo marchio indelebile è ancora tatuato
sulla nostra pelle, così come avvenne un secolo dopo con la martoriata
popolazione ebraica. Arbeit macht frei,
questo era l’ironico messaggio che accoglieva i deportati nei campi di concentramento
nazisti durante la seconda guerra mondiale ed è ancora questo vogliono incidere,
col fuoco, sulla pelle della stragrande maggioranza delle popolazioni del Sud.
Quelle popolazioni che col sudore del lavoro ripagano il sangue del Figlio.
Uomini che, in nome di una patria che non li vuole, anzi peggio li detesta, si
sono immolati alla libertà ed alla terra. Camorra, Ndrangheta, Sacra corona
unita, Mafia, sono figli di uno Stato assente, anzi mai esistito. Per decenni
hanno chiuso gli occhi, hanno fatto finta di non vedere. Faceva loro comodo.
Ma, l’erba cattiva attecchisce velocemente, non ha bisogno né di concime né di
acqua, si autoalimenta, prospera e le sue propaggini si sono estese sulle terre
floride dell’inesistente padania. Ora brucia, anche se è foriera d’ulteriore
ricchezza per i figli del signore di Giussano. I luoghi comuni assurgono a
ruolo di dogma; sud, meridionalismo e napoletano hanno conquistato il Guinnes
dei sinonimi negativi. E’ triste, ma è così. Quindi, a dispetto del conte
Camillo, l’Italia sarà pure stata fatta, ma gli italiani no e, di questo passo,
non si formeranno mai. Ed allora? Ok, se siamo indesiderati ospiti, andiamo
via. Si, andiamo via ma restituiteci il mal tolto. Cogliamo l’occasione dei 150
anni di falsa unità per stilare un bilancio socio-economico che dia a Cesare
quel che è di Cesare, dopodiché tornate pure alla transumanza, bestemmiatori
dal rutto libero, adoratori di un Dio inesistente al quale ogni anno santificate
ridicole ampolle d’acqua; millantatori e creatori di una terra che non esiste, voi
che praticate ostracismo e disprezzo verso le genti meridionali. Voi indegni
che, dopo aver prosciugato la vostra fonte di ricchezza, pretendete di
cambiarne il nome da Eldorado in Postribolo.
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